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Marco Ivaldo (Università degli studi di Napoli “Federico II”)  

Azione cattolica e azione politica.

Riflessioni alla luce del Concilio Vaticano II e dei successivi insegnamenti della chiesa

 

1. Un punto di partenza dal pensiero di Maritain

Per avviare una riflessione sul binomio azione cattolica-azione politica penso sia opportuno muovere dalla nota tematizzazione che ne ha effettuato Jacques Maritain in due suoi lavori: lo scritto “Struttura dell’azione”, allegato a Umanesimo integrale (1936), e il saggio “Azione cattolica e azione politica”, ospitato nel volume Questioni di coscienza (1938). Maritain vi sostiene che le attività del cristiano si distribuiscono su tre piani: il piano dello “spirituale”, dove il cristiano agisce come membro del corpo mistico ed è il piano della “chiesa”; il piano del “temporale”, in cui il cristiano agisce come membro della città terrena, nei campi ad es. della scienza, dell’arte, della politica, della società, ed è il piano del “mondo”; il piano “intermedio”, in cui lo spirituale “si congiunge” al temporale al fine di illuminarlo, oppure di salvaguardare sul piano temporale l’oggetto specifico dello spirituale stesso.

Spirituale e temporale sono distinti, non separati. Tutta l’attività umana, qualsiasi sia il piano sul quale si svolge, ha infatti un unico fine, e questo è l’unità con Dio. Tuttavia essa ha modi di realizzazione diversi: sul piano spirituale il cristiano agisce in quanto cristiano e ha come fine specifico l’espansione del Regno di Dio nelle anime; sul piano temporale egli agisce da cristiano: ciò che ne risulta è, o dovrebbe essere una azione che è sì ispirata cristianamente, ma che non è “specificatamente cristiana”, bensì formalmente determinata dallo scopo specifico che assume, ad es. scientifico, politico ecc.; sul piano intermedio il cristiano è impegnato e interviene in quanto cristiano, perché qui la sua attività appartiene ancora all’”apostolato” e conosce due declinazioni essenziali: a) l’illuminazione del piano temporale attraverso i principi della saggezza cristiana in campo politico, sociale ed economico (questa illuminazione, spiega Maritain, non discende fino alle determinazioni particolari dell’azione, ma costituisce un “firmamento teologico” per le dottrine e le attività più implicate nelle contingenze del mondo); b) l’impegno sulle “questioni miste” (es. matrimonio, educazione), che riguardano sì la città terrena, cioè il temporale, ma anche “il bene delle anime e la vita eterna”, cioè lo spirituale.

Agire da cristiano e agire in quanto cristiano: questo è il celebre approccio di Maritain, da allora oggetto di numerose riprese, adesioni, ma anche riserve. Al filosofo francese premeva distinguere il piano della chiesa e il piano della società politica; tuttavia e insieme, proprio in virtù della distinzione, gli stava a cuore sottolineare l’unità dell’esistenza del cristiano. Anche sul piano temporale infatti il credente non può fare astrazione dalla fede, ma tutta la sua azione deve esserne compenetrata, benché - come è doveroso - l’azione temporale si volga a scopi che non sono l’edificazione del corpo mistico, ma la costruzione della comunità politica (polis, civitas). L’azione, ogni azione, così Maritain, “è epifania dell’essere”.

Ora, Maritain sostiene che il luogo proprio dell’azione cattolica sono il piano dello spirituale e il piano intermedio dello spirituale che tocca il temporale. Su questi piani la regola è l’unione fra i cristiani. Per quanto riguarda invece il piano temporale l’azione cattolica prepara i laici (soltanto) a operare in esso da cristiani, ad assumere da cristiani la lotta sociale e politica. Un motivo fondante della riflessione di Giuseppe Lazzati, il quale riprende e sviluppa a suo modo questo approccio di Maritain è che non basta essere buoni cristiani per essere ipso facto buoni politici: occorre formarsi una specifica “competenza politica”, che ha un aspetto pratico, la virtù politica, e un aspetto teorico, la conoscenza delle realtà della politica.

Sul piano temporale - che è il luogo proprio dell’azione politica - la diversità fra i cristiani è la regola, a causa dei diversi giudizi e delle varie soluzioni che essi possono legittimamente dare alla questione sociale e politica. Sarebbe - sostiene Maritain - “contrario alla natura delle cose” reclamare su questo piano l’unione politica fra i cristiani, anche se una certa unione spirituale dovrebbe sempre dominare sulla diversità politica.

L’azione cattolica si radica nella contemplazione; il suo orizzonte di impegno non si ferma però allo spirituale, ma tende a passare all’ambito sociale, in quanto quest’ultimo interessi la chiesa a causa dei valori spirituali e morali investiti nell’azione sociale. Si apre qui il campo dell’”azione sociale cristiana”. Non è competenza dell’azione cattolica l’azione politica come tale - cui essa per altro educa i cristiani laici, come accennato -, azione che deriva invece dalle azioni dei cristiani come cittadini e che comporta normalmente la collaborazione di cattolici e non-cattolici.

 

2. La prospettiva del Concilio Vaticano II

Rispetto a questa dottrina il Concilio Vaticano II inaugura senza dubbio una prospettiva diversa, e in verità numerosi teologi e uomini di cultura hanno preso criticamente posizione contro la teoria maritainiana della distinzione dei piani anche in quanto sollecitati, a ragione o meno, della riflessione conciliare o da elaborazioni ispirate alle dottrine conciliari. Si può dire - segnalando però che queste affermazioni sono soltanto approssimative e avrebbero bisogno di più dettagliate specificazioni - che l’ordine delle attività del cristiano, che Maritain aveva tematizzato, è stato dal Concilio - in particolare adesso dalla Gaudium et spes - ripensato e rifuso (il che non significa, necessariamente, negato) in una diversa costellazione teorica, nella quale sono prevalenti un approccio teologico storico-salvifico, più che ‘metafisico’, e una impostazione antropologica personalista, più che ‘sostanzialista’. Con il Concilio si realizza, in altri termini, un mutamento di paradigma (anche) nella comprensione dell’attività del cristiano, mutamento che non va visto come una rottura del continuum della tradizione, ma che - alla luce della fede e in obbedienza alla Parola di Dio - enuclea virtualità della tradizione stessa, e le tematizza in una figura nuova, che risponde, o intende rispondere ai segni del tempo.

Già nel suo inizio la Gaudium et spes chiarisce che la chiesa “si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia” (n. 1), e poi spiega che essa “cerca di discernere negli avvenimenti [...] i veri segni della presenza e del disegno di Dio” (n. 11; cfr. anche n. 4). La Gaudium et spes muove dalla unità del disegno di Dio, nel quale ciò che la dottrina tradizionale chiama spirituale e temporale sono originariamente abbracciati e compresi. Questo conduce immediatamente la Costituzione conciliare a indirizzare la sua attenzione all’uomo: “L’uomo - leggiamo al n. 3 - nella sua unità e totalità, corpo e anima, cuore e coscienza, intelletto e volontà [...] sarà il cardine di tutta la nostra esposizione”. In particolare la Gaudium et spes contestualizza questa concentrazione sull’uomo e la affermazione della dignità della persona umana in una visione teologica che muove dalla comprensione dell’uomo come “immagine di Dio” (n. 12) e conclude in una chiave cristologica, per cui “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo”. E’ Gesù Cristo infatti che - suona una nota affermazione - “svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (n. 22).

Questa chiave cristologica - che non può essere intesa come una aggiunta estrinseca a una antropologia di matrice fondamentalmente ‘neo-scolastica’ - è stata evidenziata da Giovanni Paolo II come la prospettiva architettonica della Gaudium et spes.  Essa risiede a fondamento della enciclica programmatica del pontificato di Giovanni Paolo II, la Redemptor hominis (1979), e - come è detto qui al n. 10 - dischiude la “dimensione umana del mistero della redenzione”, redenzione in virtù della quale l’uomo viene “nuovamente creato” e ritrova “la grandezza, la dignità, il valore propri della sua umanità”.

La diversa impostazione delle questioni che scaturisce da questo punto di partenza ha postulato e postula che le tradizionali elaborazioni su azione cattolica e azione politica debbano venire ripensate - o meglio, verificate e nuovamente pensate - e riformulate alla luce del nuovo paradigma cristologico, che il Concilio ha avanzato e la riflessione successiva - nell’insegnamento della chiesa e nella ricerca teologica - ha fortemente accentuato. E’ necessario muovere dalla coscienza che sia la chiesa che la comunità degli uomini hanno a che fare con la persona umana, creata da Dio a sua immagine somigliante con una destinazione comunitaria, e redenta (nuovamente creata!) da Cristo, il quale porta a compimento questa vocazione stessa e ne evidenzia il nucleo nella forma di vita dell’amore: la persona trova se stessa nel dono di sé per altri, da cui è affetta originariamente al modo di un essere libero. Sia la chiesa che la comunità degli uomini hanno allora come fine il bene comune della persona, che si realizza in maniera compiuta nella relazione escatologica della persona e delle persone con Dio e in Dio, ma che è suscettibile di declinazioni diverse nelle varie forme di associazione e di comunità che le persone pongono in essere nella vita temporale (es. famiglia, società economiche, civili, politiche, intellettuali, religiose ecc.).

Ora, l’unità dell’amore - come sostanza vivente e vocazione della persona - richiede che l’attività umana abbia un ordine, e questo ordine (dinamico) presuppone l’autonomia delle “realtà terrene” (autonomia, non autosufficienza!), ossia il fatto che - come sostiene la Gaudium et spes al n. 36 - le cose create e le società umane hanno leggi e valori propri, che gli uomini, e perciò anche i cristiani, devono scoprire, usare, ordinare, riconoscendo “le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza e arte”.  Qui è il luogo in cui - all’interno della nuova costellazione cristologica - troviamo il fondamento di legittimazione di quel principio di distinzione che stava particolarmente a cuore alla filosofia (e teologia) di ispirazione tomista. Questo principio non può essere cancellato nè deve venire dimenticato - come in effetti talora è avvenuto -, ma deve essere ritrovato e ripreso a un livello più alto, a partire da un nuovo centro, cioè dalla incarnazione del Verbo come compimento insuperabile dell’ordine dell’amore. Una comprensione cristiana della laicità deve a mio giudizio fondarsi precisamente su questo principio di distinzione, in virtù del quale laicità significa essenzialmente rispetto e custodia (operosa ed effettiva) delle specificità proprie delle diverse attività umane. Queste ultime non dipendono nel loro statuto essenziale e nel loro valore intrinseco dal fatto di essere religiosamente qualificate (in virtù di un riferimento all’una o l’altra religione positiva, all’una o l’altra comunità religiosa); come “realtà terrene” esse ricevono in maniera immediata da Dio la loro “consistenza, verità e bontà”, che devono essere poste al servizio della persona/delle persone. Le attività umane infatti, proprio in quanto attività, non possono concepirsi come indipendenti dall’ordine morale che si manifesta nella coscienza morale della persona. Esiste in definitiva una competenza morale originaria della persona, soggetta alla legge morale, che riguarda ogni sua azione e operazione. 

 

  3. Azione cattolica e azione politica

  Il Concilio Vaticano II e gli sviluppi successivi della ricerca teologica, dell’insegnamento della chiesa, dell’esperienza dei cristiani, hanno sottolineato in molteplici modi e in vari tempi la vocazione, perciò la responsabilità dei cristiani laici. Ora, è forse proprio la tematizzazione del compito dei cristiani laici che consente di riprendere nella maniera più efficace, dentro il nuovo paradigma, la riflessione sul binomio azione cattolica-azione politica.

L’esortazione apostolica successiva al sinodo sui laici del 1987 Christifideles laici (1988) accentua che i fedeli laici, in quanto membri della chiesa, hanno la vocazione e la missione di essere annunciatori del Vangelo. Questo impegno di evangelizzazione - che richiede una formazione conveniente - mi sembra identifichi ciò che nel linguaggio tradizionale, comunque ripreso dal Concilio, era e resta l’azione cattolica (segnalo che qui intendo con azione cattolica non una particolare o particolari associazioni, ma una forma di attività del cristiano). Ciò mi sembra confermato dal fatto che l’esortazione afferma che condizione di questa evangelizzazione è che “si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali” (n. 34), e che tale evangelizzazione diverrà possibile se i laici sapranno superare in se stessi la frattura fra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia, nel lavoro, nella società, l’unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza. Rifare il tessuto cristiano della comunità ecclesiali, realizzare l’unità di fede e vita, annunciare e testimoniare la “buona notizia” - cosa che implica di essere radicati in modo vivo e reale nella Parola di Dio -: questa mi sembra ancora e sempre la missione che chiamiamo azione cattolica, missione che dalla impostazione cristologica e personalista del Concilio trae in verità nuova motivazione e impulso.

D’altra parte - come afferma la Gaudium et spes (n. 43) - ai fedeli laici competono “propriamente, anche se non esclusivamente” (proprie, etsi non exclusive) gli impegni e le attività temporali. L’enciclica Deus est caritas di Benedetto XVI afferma con tutta chiarezza che “il compito di operare per un giusto ordine nella società è [...] proprio dei fedeli laici” (n. 29). A tal fine - continua la Gaudium et spes - essi si sforzeranno di procurarsi una vera competenza in questi ambiti. E’ il motivo che stava particolarmente a cuore a Giuseppe Lazzati. La Gaudium et spes avanza poi una affermazione di notevole rilievo: “Spetta alla loro [dei laici] coscienza, già conveniente formata [da quella che ho chiamato azione cattolica], di iscrivere la legge divina nella città terrena” (n. 43). Questa “iscrizione” richiama perciò la responsabilità dei laici, da esercitarsi alla luce della saggezza cristiana e prestando rispettosa attenzione all’insegnamento del magistero della chiesa (il “firmamento teologico” di cui parlava Maritain!). Si apre così il campo dell’azione politica come lo spazio pubblico della ragione autoresponsabile, nella quale si dà per i cristiani una pluralità di giudizi e di soluzioni legittime - cioè coerenti con ciò che ho designato il “firmamento teologico” - per quanto riguarda la determinazione del bene collettivo, in vista del quale occorre comunque sussumere nel giudizio anche una molteplicità di fattori contingenti. Che cosa può significare però: iscrivere la legge divina nella società umana?  Penso che il paradigma cristologico richiamato ci solleciti a comprendere questa legge non in termini giusnaturalisti, ma come un ordinamento vivente dell’amore; e ritengo che l’”iscrizione” di questo ordinamento dinamico debba essere intesa come un atto creativo e riflessivo, più che come una deduzione ‘logica’ (secondo un paradigma giusnaturalistico). E’ l’atto di una incarnazione concreta di valori - cioè di qualità etiche motivanti e normative -, una incarnazione che funga al tempo stesso da appello, esortazione, sollecitazione rivolta a esseri liberi, e sia accompagnata dalla consapevolezza della perfettibilità dell’umano - perciò anche della sua limitazione -, e della autonomia delle sue diverse attività. Per quanto riguarda la legislazione positiva si dovrebbe dire che essa deve rispecchiare l’ordo amoris e quindi favorire l’amicizia (philia) e la coesione fra i cittadini, ma il suo compito specifico è precisamente quello di regolare con giustizia e saggezza le relazioni della libertà esterna dei cittadini stessi. Esiste in tal senso una differenza fra diritto (e politica) e morale, che il politico saggio - quello che Kant chiama il politico morale - deve osservare e rispettare: il diritto deve rendere possibile, come base fattuale di relazioni ordinate (tranquillitas ordinis), il rapporto etico fra le persone, ma non è a sua volta una relazione etica, che ha a che fare con la posizione originaria della libertà di fronte all’imperativo etico-ontologico del bene e del senso.

E’ legittimo conclusivamente sollevare la domanda su come possiamo intendere oggi l’azione del cristiano sul piano che Maritain chiamava “intermedio”, del temporale che tocca lo spirituale. Questa domanda assume oggi una urgenza particolare, se prendiamo ad esempio in considerazione l’accento che, nella chiesa, viene posto sulla difesa e la promozione della costellazione di valori raccolti dalla parola-chiave: vita. La difesa e la promozione della vita assurge oggi - nell’epoca delle biotecnologie, della bioetica, della biopolitica - a grande “questione mista”, in quanto riguarda sì la società terrena, i suoi mores e le sue legislazioni, ma insieme tocca le convinzioni etiche e religiose fondanti. La Christifideles laici invita ad esempio a difendere il diritto alla vita “quale diritto primo e fontale, condizione per tutti gli altri diritti della persona” (n. 38). Ora, nonostante che il tema-vita sia oggetto di molte e ripetute prese di posizioni autorevoli nella chiesa, non mi sembra che sia ancora emerso un chiarimento dottrinale adeguato sul metodo attraverso il quale i cristiani laici debbano e possano agire in vista di esso. Tuttavia un passo della Gaudium et spes può, a mio giudizio, offrire un approccio produttivo a questa questione.

Al par. 76 della Costituzione conciliare leggiamo che è di grande importanza che si faccia una chiara distinzione fra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono “in proprio nome”, come cittadini, e le azioni che essi compiono “in nome della chiesa, in comunione con i loro pastori”.

Direi allora che, in primo luogo, esiste una difesa del “carattere trascendente della persona umana” - di cui la chiesa è “segno e salvaguardia” - e quindi della dignità dell’individuo, che fa parte intrinseca e diretta della missione della chiesa, e che i cristiani laici, i cristiani comuni, devono realizzare in quanto membri della chiesa e in comunione con essa, perciò in unione diretta con i pastori. Questa difesa è un momento interno dell’evangelizzazione, ed esprime fra l’altro la opposizione critica della chiesa rispetto a ogni totalizzazione e autochiusura ‘mondana’, sia essa motivata in nome della politica, della scienza  ecc..

Tuttavia, e in secondo luogo, se la difesa del diritto alla vita - come viene affermato - è al tempo stesso la difesa di alcune verità elementari concernenti l’essere stesso, la natura comune, dell’uomo - verità che in linea di principio possono venire colte e apprezzate dalla comune ragionevolezza - allora penso che su questo piano sia richiesta la presenza e l’azione dei laici cristiani come cittadini, i quali operino in nome proprio e sotto propria responsabilità nella ricerca delle mediazioni culturali e politiche che, in virtù della comune ragionevolezza e per la via della argomentazione razionale, risultino efficaci per garantire e promuovere in concreto tale diritto (ciò vale comunque anche per gli altri diritti fondanti). Non che l’efficacia pratica sia l’unico riferimento validativo della mediazione: questa deve muovere dalla costellazione spirituale e dal “firmamento teologico” della fede e della saggezza cristiana e deve sforzarsi di rimanervi fedele in concreto, cosa che significa: deve penetrare in esse e lasciarsene ispirare. Tuttavia la mediazione deve anche assumere le situazioni, i contesti, in rapporto ai quali è chiamata a esercitarsi, e deve cercare di ottimizzare l’insieme delle pretese morali e degli interessi legittimi in gioco al loro interno, guardando anche alle conseguenze prevedibili, a breve e a lungo termine, dei mezzi adottati. I greci chiamavano la virtù propria di questa forma del ragionamento phronesis, i latini prudentia. Potremmo nominarla saggezza, o capacità del giudizio in situazione. Penso che l’esercizio di questo giudizio in situazione, che non è come tale già pre-contenuto nelle affermazioni della dottrina sociale, sia inalienabile responsabilità del cristiano laico nella costruzione della buona vita e di legami umanizzanti in ambito sociale, giuridico e politico.