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Testimoni di
Gesù Risorto, speranza del mondo
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(Testo
trasmesso dal prof. Cesare Saccani della Sezione AIDU di Bologna) |
Bologna, S. Sigismondo,
incontro con i docenti universitari – 31 marzo 2006 |
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Prof. Don Erio Castellucci, Preside della
Facoltà di Teologia |
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“Noi speravamo che fosse lui
a liberare Israele” (Lc 24,21). “Noi speravamo”: questo verbo
imperfetto, in bocca a uno dei due discepoli di Emmaus, tradisce
amarezza, disillusione, sconforto. Ogni loro speranza era stata sepolta
con il corpo di Gesù. Non restava che volgere le spalle a Gerusalemme e
riprendere la vita di prima. La croce per i due discepoli ha segnato il
crollo delle speranze riposte su Gesù: se la sua vicenda è finita così,
vuol dire che non era il liberatore di Israele, come aveva preteso, ma
un impostore. |
Quando i discepoli di Emmaus
ragionavano così non avevano ancora riconosciuto il Risorto né creduto
all’annuncio della risurrezione di Gesù; è logico quindi che non
sapessero che la loro speranza era stata ben riposta. Ma anche dopo
le apparizioni e la diffusione della fede pasquale, non sempre la verità
della risurrezione di Gesù si mostra nei fatti capace di sostenere la
speranza dei cristiani. Ne è testimonianza impressionante il dibattito
condotto da Paolo con i Corinti, nella sua prima lettera a quella
comunità: a due riprese dichiara “vana” la fede di quei cristiani che
non credono alla risurrezione di Gesù (cf. 1 Cor 15,14.17: cf. 15,1-11)
e degna di compianto la speranza in Cristo limitata a questa vita: “se
poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo
da compiangere più di tutti gli uomini” (15,19; cf. 15,20-28). La
speranza di cui parla qui Paolo, basata sulla fede nel Risorto, è quella
della risurrezione finale dei morti, alla quale i Corinti – da buoni
greci – stentavano a credere. |
La speranza cristiana è come
un’ellissi che ruota attorno a due fuochi: il fuoco maggiore è la
risurrezione di Cristo, nucleo propulsore dal quale prende avvio
l’annuncio cristiano; il fuoco minore è la risurrezione dei morti (o
della carne o del corpo) alla fine dei tempi. Il passaggio dall’uno
all’altro dei fuochi è così stabilito da Paolo: “Cristo è risuscitato
dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15,20). La
risurrezione di Cristo, insomma, già avvenuta in lui e promessa in noi,
è il centro della speranza della Chiesa. |
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In questa piccola riflessione
terrò sullo sfondo il documento offerto dalla CEI alla riflessione delle
diocesi italiane in vista del Convegno ecclesiale nazionale di Verona
nell’ottobre 2006: “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”. |
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Il primo passo della trasmissione della speranza: la cura della
domanda |
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La speranza va
comunicata. La fede nel Risorto ha questa intima struttura
estroversa, come risulta dai racconti pasquali di apparizione: chi
riconosce Gesù è invitato ad annunciarlo. Sintomatica la frase del
Risorto alla Maddalena dopo il riconoscimento vicino al sepolcro: “Non
mi trattenere... ma va’ dai miei fratelli” (Gv 20,17). Il Risorto non
deve essere trattenuto per sé, ma donato agli altri. La speranza
cristiana quindi non è fatta per essere semplicemente conservata ma per
essere comunicata. La speranza è così per 1 Pt una “responsabilità”,
deve “rispondere” a qualcuno, deve rendere conto di se stessa davanti ad
altri. |
Credo che a questo
proposito vada evitata una trappola nella quale noi cristiani
rischiamo di cadere troppo ingenuamente: quella di dare facili risposte
senza avere ascoltato a fondo le domande. Lo schema che vuole l’uomo di
oggi infelice e disperato, al quale il cristiano va incontro con la sua
speranza donandogli finalmente la felicità, è molto poetico ma è
purtroppo spesso contraddetto dall’esperienza. Forse uno dei problemi
pastorali fondamentali, nella trasmissione della fede, sta proprio in
questa sfasatura tra domanda e risposta. Noi elaboriamo risposte anche
molto approfondite ed argomentate, ma senza talvolta tenere conto della
domanda; così la nostra argomentazione è perfetta, da manuale, ma non
produce molto. Il fatto è che tante persone, pur dichiarandosi lontane
dalla fede e dalla Chiesa, non avvertono infelicità né tanto meno
disperazione. Un insegnante di religione delle superiori una volta mi
diceva: “a scuola passo la maggior parte del tempo a cercare di
convincere i ragazzi che non sono felici, ma il risultato è scarso...”. |
A questa prima
trappola se ne connette immediatamente una seconda: quella di
prospettare a chi non crede un futuro realisticamente toccato dalla
sofferenza e dalla disperazione, nel quale Dio dovrà trovare un posto,
se non ci si vuole disperare. Fino a qualche tempo fa io cadevo in
entrambe le trappole, sia nella catechesi come nelle omelie e nei
dialoghi personali. In particolare mi ci faceva cadere un mio amico
ateo, compagno di scuola alle superiori e ora avvocato, con il quale
prosegue da ormai trent’anni un dibattito ininterrotto sulla fede. Da
seminarista, cercavo anch’io di convincerlo che senza la fede lui non
poteva stare bene e, se non proprio disperato, almeno infelice doveva
esserlo di sicuro. Ma lui mi ribadiva sempre che, a parte qualche
piccolo fastidio episodico, stava benissimo e non era affatto triste.
Allora cambiai tattica, e in seguito introdussi un’altra argomentazione,
il cui succo era questo: “adesso magari non sei triste, ma vedrai che
tra qualche tempo, forse prima di quello che pensi, anche a te verranno
addosso delle sofferenze e delle disgrazie, e allora sarai infelice e
disperato”. Così rivestivo i panni da una parte del facile profeta e
dall’altra del profeta di sventure. La sua reazione, dopo alcuni gesti
di scongiuro, era decisa: diceva che i cristiani e ancora di più i preti
sono degli avvoltoi, perché aspettano la morte degli altri per poter
proclamare la vittoria della loro fede in Dio e nell’aldilà... |
Aveva ragione lui,
in fondo. Se davvero la speranza cristiana potesse risuonare solo dentro
alla disperazione umana, sarebbe solo un rattoppo. Nascono di qui alcune
questioni vitali per la comunicazione odierna della fede: come
presentare credibilmente i grandi orizzonti della speranza cristiana a
uomini che spesso non ne avvertono il bisogno?. E' necessario forse
“prenderli per fame”, aspettando che sperimentino delusioni e
fallimenti, per poter mettere loro davanti – come una tavola imbandita –
la prospettiva dell'eternità? E' necessario attendere, per annunciare la
bella notizia, che l'uomo si trovi in una brutta
situazione? E' indispensabile che venga scottato dall'esperienza della
paura, della morte, del dolore? E' inevitabile che l'annuncio della
speranza cristiana si innesti sulla disperazione? |
E’ vero:
l'esperienza dello scacco può costituire effettivamente un’occasione di
riscoperta della speranza cristiana, come segnala Marcel quando parla
della speranza come di una realtà strettamente legata alla ‘prova’,, e come registra l’esperienza pastorale, ogni volta che riscontra nelle
persone una maggiore disponibilità ad accogliere una salvezza dal di
fuori, quanto non possono raggiungerla con le loro forze. E tuttavia non
possiamo ridurre l'annuncio della speranza cristiana ad un rattoppo da
mettere su uno strappo. Rischierebbero allora di avere ragione Marx,
Nietzsche e Freud quando presentano la categoria di ‘illusione’ come
struttura-base della religione e delle sue speranze ultraterrene.
Dio sarebbe quel ‘tappabuchi’ che D. Bonhöffer avversava con tutte le
sue forze;
la speranza cristiana dovrebbe intervenire solo quando la ragione
fallisce; la grazia farebbe irruzione quando il merito non ha più le
forze; Dio occuperebbe gli spazi del fallimento dell'uomo; la vita
eterna diventerebbe credibile solo quando la vita terrena non ha più
nulla da dare. Come aveva intuito il genio di F. Dostoevskij, Dio in tal
caso servirebbe all’uomo solo nel buio della notte, potendo essere
accantonato dall’alba al tramonto. |
Se però vuol essere
davvero credibile, la trasmissione della speranza cristiana deve essere
possibile non solo come “compensazione della tristezza” ma anche come
“pienezza della gioia”. Il cristianesimo deve mostrarsi non solo capace
di rispondere a dei bisogni espressi
ma anche in grado di suscitarne dei nuovi, o meglio, di rendere l'uomo
cosciente che esistono possibilità insospettate di realizzazione. In
questo senso, allora, la speranza cristiana deve non solo poter
“rispondere” alle domande che salgono dalle situazioni di tristezza, ma
anche suscitare dentro le situazioni gioiose la domanda sulla “pienezza”
e sul “significato”. |
Molti, certo, non
sentono il bisogno di porsi domande profonde riguardanti il senso pieno
delle esperienze che stanno vivendo; c’è chi non sospetta neppure che
esista un senso pieno e comunque non se ne preoccupa. Chi è sempre
vissuto in pianura, non può desiderare la bellezza degli Appennini,
almeno fino a quando un altro non gliene parla e, magari, lo convince a
fare una passeggiata con lui; da allora, forse, la campagna gli starà
troppo stretta; se, poi, avrà modo di fare una scalata sulle Alpi e di
ammirarne i ghiacciai e i grandiosi panorami, gli Appennini stessi non
gli basteranno più. Più uno osa andare in profondità, meno si appaga
della superficialità. L’annuncio della speranza evangelica non ha solo
la funzione di rispondere ai bisogni coscienti, ma anche quella di
suscitare bisogni profondi, inquietudini salutari: perché Dio ha creato
l'uomo per le vette; chi si ferma in pianura, anche ci si trova bene,
non estrae dalla vita tutta la gioia possibile. Chi assapora la bellezza
del Vangelo non è più appagato dagli idoli del mondo. Il cristianesimo
non sazia solo la sete, ma ne provoca una più raffinata ed intensa:
l'annuncio dell'acqua che zampilla per la vita eterna si innesta, è
vero, sulla sete di chi si sarebbe accontentato dell'acqua dal pozzo di
Giacobbe (cf. Gv 4), ma non si ferma a rispondere a quel bisogno: ne
suscita uno più grande, che era stato sopito e di cui neppure v’era
consapevolezza. |
Di qui la grande
importanza per i cristiani della testimonianza gioiosa della
speranza, dove la preoccupazione non è tanto quella di approfittare
delle sofferenze umane, quanto quella di lasciar trasparire la bellezza
del Vangelo, di insinuare il dubbio che vi siano mete più alte. Speranza
e gioia vanno a braccetto: se c'è qualcosa che può mettere in crisi le
sicurezze di chi sta bene anche in pianura,, è la gioia dei
cristiani; la testimonianza che la vita cristiana è vita anche
umanamente piena, perché il Vangelo non è tanto supplenza
quanto pienezza della felicità umana in tutti i suoi risvolti:
amicizia, affetti, bellezza, pace, giustizia. Certo questi valori,
assunti dal Vangelo, vengono purificati in un processo che comporta
anche fatica e distacco: ma ciò che è autenticamente umano non scompare,
anzi, è esaltato. |
Mi sembra che S.
Agostino avvertisse questa dimensione con ineguagliata intensità, quando
vedeva nel perseguimento della felicità, sotto qualunque forma, una
ricerca almeno implicita di Dio, che possiede in misura somma ogni
felicità. Scrive ad esempio: “l’orgoglio simula l’eccellenza, mentre il
solo Dio eccelso al di sopra di tutte le cose sei tu. L’ambizione a che
altro aspira se non a onori e gloria, mentre tu solo sopra tutto meriti
onore e gloria eterna? La crudeltà dei potenti mira a incutere timore;
ma chi è davvero temibile se non Dio solo, al cui potere cosa si può
strappare o sottrarre, e quando, dove, come, da chi? Le seduzioni delle
persone lascive, poi, mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente
della tua carità, né vi è amore più salutare di quello della tua verità,
tanto è bella e splendente oltre ogni cosa. La curiosità si atteggia a
desiderio di conoscenza, mentre chi conosce tutto e in sommo grado sei
tu; persino l’ignoranza e la scempiaggine si coprono col nome di
semplicità e innocenza, poiché si trova nulla più semplice di te e c’è
cosa più innocente di te, se ai malvagi stessi nuocciono le opere loro?
La pigrizia dal canto suo sembra cercare quiete, ma esiste quiete sicura
senza il Signore? Il lusso vuol esser chiamato soddisfazione e copiosità
di mezzi; sei tu però la pienezza e l’abbondanza inesauribile
d’incorruttibili bellezze. La prodigalità si copre con l’ombra della
liberalità, ma il più copioso dispensatore di ogni bene sei tu.
L’avarizia aspira a possedere molto, mentre tu possiedi tutto. L’invidia
disputa per eccellere, ma cosa eccelle più di te? L’ira vuole vendetta,
ma quale vendetta è più giusta della tua? La pavidità trema, nella sua
ricerca di sicurezza, dei pericoli insoliti e repentini che incombono
sugli oggetti d’amore; a te infatti riesce qualcosa insolito, repentino?
O qualcuno ti può privare degli oggetti del tuo amore? E dove si è
saldamente sicuri se non al tuo fianco? La tristezza si rode per la
perdita dei beni, di cui si dilettava la cupidigia, poiché vorrebbe che,
come a te, così a sé nulla si potesse togliere. In queste forme l’anima
pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il
candore, che non trova se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano,
alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te”. |
L'impegno
dell’evangelizzazione dovrebbe essere forse diretto meno a condannare le
idee e i comportamenti e più a testimoniare come il Vangelo sia capace
di assumere, purificare e portare a pienezza l'umano
. Certo i valori umani,
assunti dal Vangelo, vengono purificati in un processo che comporta
anche fatica e distacco: ma ciò che è autenticamente umano non scompare,
anzi, è esaltato. La salvezza cristiana sperata inizia da ora: è
salvezza ‘integrale’, che prende forma già nella storia umana.
Riprenderemo il filo del discorso quando avremo affrontato meglio il
tema della risurrezione di Gesù come contenuto essenziale della
speranza. |
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La speranza,
struttura di fondo dell’azione umana |
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L'uomo è l'essere che
spera: “Ogni uomo vive in quanto ha delle aspirazioni e fa dei
progetti, in quanto, spera, insomma”.
Sperare e vivere, in un certo senso, si identificano: l'uomo spera di
vivere (bene e sempre) e può vivere quando spera. L'esperienza dimostra
che perfino le situazioni-limite, dove le forze umane – fisiche e
psichiche – sembrano esaurite, possono essere sopportate e superate
dall'uomo che “spera” di uscirne; le situazioni apparentemente
appaganti, al contrario, si rivelano insufficienti a sostenere la
volontà di vivere, quando non sono accompagnate dalla speranza di una
meta ulteriore. Come afferma E. Brunner: “la speranza rappresenta per la
vita umana ciò che è l'ossigeno per i polmoni. Se si elimina l'ossigeno,
sopraggiunge la morte per soffocamento. Se si elimina la speranza,
sopraggiunge negli uomini l'affanno cioè la disperazione, la paralisi
della molla spirituale dell'anima, con un senso di nullità, di assurdità
della vita”.
La speranza si rivela così come la struttura antropologica
fondamentale, la colonna vertebrale che sostiene ogni azione ed ogni
pensiero dell'uomo. |
Diversi anni fa,
dopo avere visitato il campo di sterminio di Dachau, lessi alcune opere
riguardanti i lager nazisti, per farmi un’idea di quanto era capitato in
quei drammatici anni: alcuni resoconti storici, qualche romanzo e una
sorta di reportage sugli esperimenti cosiddetti scientifici ai
quali i medici nazisti sottoponevano i prigionieri. Oltre alle
innumerevoli atrocità, mi impressionava un dato: molti dei prigionieri
riuscivano a sopravvivere in condizioni oggettivamente impossibili.
Quelli che non morivano perché uccisi direttamente o perché soccombevano
fisicamente, attraversavano tenacemente situazioni di umiliazione
indescrivibile, fame e sete, malattie di ogni tipo, sfruttamento fisico
per lavori di una fatica disumana. Un decimo di quella sofferenza mi
appariva sufficiente ad abbattere chiunque: eppure alcuni ce la
facevano. Cosa li sosteneva? Credo soprattutto una cosa: la speranza di
riabbracciare i loro cari. Questo ‘progetto’ per alcuni si rivelò più
potente della disumanità sperimentata, e riuscirono a realizzarlo. E’
illuminante in proposito quanto nel suo Diario scriveva l’11
luglio 1942 Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese poi morta anch’essa
in campo di sterminio nazista. Pensando alle persone da lei più amate,
con le quali era allora impossibile comunicare: “Esteriormente si è
scaraventati lontano, e i sentieri che ci collegano rimangono sepolti
sotto le macerie (...). La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di
una vita in comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la
speranza di ritrovarci ancora su questa terra?”.
All’incirca in quello stesso periodo in cui leggevo questi saggi, capitò
che alcuni personaggi abbastanza famosi, a distanza di poche settimane
l’uno dall’altro, si tolsero la vita. Per quale motivo? Apparentemente
avevano raggiunto il successo e sicuramente anche il denaro... che cosa
era venuto a mancare? Forse non avevano uno scopo più grande in cui
inserire quelle mete? Forse il raggiungimento di mete materiali non è da
solo appagante? In ogni caso, il contrasto non poteva essere più
vistoso: da una parte persone che, ridotte allo stremo delle forze,
riescono a farcela sostenute dalla speranza; dall’altra persone che,
raggiunto l’apice del successo, perdono la speranza al punto da non
sopportare più la vita. |
Per illuminare
meglio questo meccanismo ci può aiutare una intuizione che alla fine
dell’Ottocento guidò il grande filosofo cattolico francese Blondel,
nella sua tesi di laurea L’Action: ogni volta che l’uomo agisce,
a qualsiasi livello delle sue capacità, con questo stesso agire dimostra
che spera; l’azione è investimento di speranza, è attestazione di
speranza; se l’uomo non sperasse, resterebbe immobile. In termini più
fedeli al linguaggio di Blondel: l'uomo è spinto ad agire dalla volontà
(volonté voulante), che si propone una meta; una volta però
raggiunta quella meta, la volontà che in essa si è concretizzata
(volonté voulue) è insoddisfatta e mira sempre oltre. Questo
meccanismo vale per tutta la gamma delle azioni umane: da quelle più
intime che riguardano il pensiero, a quelle via via più esterne, che
riguardano i rapporti con il mondo, con gli altri uomini e con il
divino. Questa è la dinamica dell'azione che, per lui, postula
ultimamente un Soprannaturale che appaghi la volontà; in caso contrario
la vita non ha senso, perché sarebbe un indefinito girare a vuoto sempre
inappagato e senza alcuna meta.
La riflessione blondeliana ha influenzato i maggiori teologi del
Novecento (da Rahner a Balthasar, da De Lubac ad Alfaro). |
L’intuizione di
Blondel si può oggi esprimere anche così: l’uomo “va sempre oltre le sue
speranze, le precede. Esiste un dislivello insuperabile fra la profonda
tensione del suo spirito che lo spinge ad operare, e i risultati
concreti della sua azione nel mondo. Se non esistesse, l'uomo si
troverebbe nell'incapacità di decidere e di agire; perché possa
continuare il suo impegno per la trasformazione del mondo, la sua
speranza deve continuamente superare le mete raggiunte. L'azione
dell'uomo sul mondo, quindi, nella sua stessa dialettica interna, porta
con sé l'impossibilità della di lui pienezza intramondana”.
Quando infatti l’uomo si dà delle mete e le raggiunge, se non
pro-getta (letteralmente: getta più avanti) subito altre mete più
elevate, rischia di rimanere deluso e deprimersi. Se invece rilancia,
allora si rimette in moto, mantiene la tensione ed evita di ricadere su
se stesso. |
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Qualsiasi meta nella
vita terrena, una volta raggiunta, deve essere trampolino per una meta
ulteriore, perché da sola non appaga mai completamente la sete umana di
felicità. Se l’avere, il piacere e il potere non rientrano in un
progetto più grande di loro e si trasformano invece in mete ultime,
inevitabilmente ricadono su chi le ha perseguite e lo trascinano nella
valle della delusione o della disperazione. Progettare è l’anima
della speranza: gettare sempre oltre, rilanciare sempre la meta più
avanti, puntare su qualcosa che è più in alto. Considerate in
quest’ottica, le mete spirituali che il Vangelo propone, riassumibili
nella santità, sono fortemente... anti-depressive, perché sono
sempre oltre ciò che l’uomo può raggiungere; chi si dà il Dio
cristiano come meta ultima, non perde mai la tensione verso qualcosa che
sta oltre ogni possibile traguardo: Dio è sempre oltre e ci chiede un
amore che è più in là delle nostre realizzazioni. Il percorso della
santità cristiana è quindi un incessante cammino di speranza, un
progetto dove ogni meta raggiunta è provvisoria e guarda già più avanti.
In questo progetto rientrano anche le mete materiali, come il potere, il
piacere e l’avere: sono dimensioni che non vengono affatto rifiutate dal
cristianesimo, ma vengono collocate nella loro giusta funzione – quella
appunto di mezzi per amare di più – essendo unico fine della vita
la felicità che viene dall’amore di Dio e del prossimo. Se vissute (da
ciascuno secondo la propria vocazione) come strumenti e non come mete,
cioè se fatte rientrare in un progetto di santità, le tre dimensioni
dell’avere, del piacere e del potere contribuiscono ad alimentare la
speranza. |
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Cristo Risorto,
perno della speranza cristiana |
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Il contenuto essenziale della
speranza cristiana, come ho detto nell’introduzione, ruota attorno alla
parola ‘risurrezione’: di Gesù e nostra. La risurrezione è un mistero
d’amore: chi ama vuole che l’amato viva, non ne può sopportare la morte.
E Dio non si sottrae a questa logica d’amore: “ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia
ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). |
Tutto partì dalla fede nella
risurrezione di Gesù, che rese evidente ai primi cristiani la sua
identità divina e il senso della croce. Se per assurdo cancellassimo la
risurrezione, cosa resterebbe della vita di Gesù, della sua persona e
del suo messaggio? Egli non sarebbe altro che uno dei grandi uomini
comparsi sulla terra e poi da essa scomparsi... Certo rimarrebbe un
pensatore originale: ma non del tutto, poiché pescava
abbondantemente dall’Antico Testamento; e comunque originale non più di
un Platone o di un Confucio. Certo, resterebbe anche un uomo coerente:
ma con qualche cedimento in prossimità della sua morte, diversamente da
un Socrate o da un Giulio Cesare che affrontarono una sorte analoga a
viso aperto. Certo, sarebbe comunque un maestro di verità elevate:
ma non più di un Buddha, che radunò molte centinaia di discepoli
attorno ad una dottrina ancora oggi in buona salute. |
Senza la risurrezione, in
realtà, la vita, la predicazione e l’opera di Gesù sarebbero quasi
certamente cadute in oblio. Nessuno avrebbe avuto interesse a recuperare
la vicenda e le idee di uno che aveva avanzato pretese messianiche
esorbitanti e che poi era finito sulla croce, massimo segno di vergogna
e abbandono non solo da parte degli uomini ma anche di Dio. E nessuno
avrebbe ripescato un messaggio e un’etica basati sul dono di sé, se
fosse stato persuaso che proprio colui che l’aveva predicata era stato
ucciso ed eliminato definitivamente per averla messa in atto. Se le
donne e i discepoli, il giorno di Pasqua, non avessero avuto la certezza
che era risorto, quasi certamente anche il ricordo di Gesù sarebbe
rimasto sepolto con lui. Da questa fede nel Risorto è nato invece
l’annuncio cristiano, è nata la stessa Chiesa. |
Inizialmente la fede si
riassumeva attorno a questa frase scarna: “Dio ha risuscitato Gesù dai
morti”, senza che nemmeno chi la pronunciava ne capisse tutte le
implicazioni. L’annuncio cristiano è scaturito dunque da una ‘piccola
storia’, di poche ore: all’inizio del cristianesimo non c’è una
riflessione teorica su Dio, un sistema etico o una normativa, ma questa
piccola storia. Poi a poco a poco i cristiani hanno compreso che cosa
significava per la Persona di Gesù: hanno riletto le Scritture ebraiche
alla luce della sua risurrezione, hanno capito che la croce non era
fallimento ma dono totale, hanno compreso che Gesù era il Figlio di Dio
incarnato... hanno cioè cominciato a fissare le verità cristiane
essenziali attorno al mistero pasquale. Ancora più avanti ne hanno
dedotto per loro anche una vita morale diversa da quella pagana – la
“vita nuova” di cui parla Paolo, fondata non sulle opere della carne ma
sul frutto dello Spirito (cf. Gal 5,16-22) – ed hanno gradualmente
raccolto quanto Gesù aveva detto e compiuto, interpretandolo alla luce
della sua risurrezione. |
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Ma il mistero pasquale non ci
interesserebbe molto se avesse coinvolto solo Gesù: al massimo saremmo
contenti per lui, ma questo non basterebbe certamente ad alimentare la
nostra speranza. Ora invece Cristo è risorto come “nostra primizia” (1
Cor 15,20), come “primogenito” dei risorti da morte (cf. Col 1,18). La
speranza cristiana allora non è una vaga tensione verso il futuro, è
bensì fondata su un evento i cui effetti certo si compiranno alla fine
ma che è già accaduto nella storia e i cui effetti si stanno già
dispiegando. Se “la speranza non delude”, per usare le parole di Paolo,
è solo “perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5,5). Il Padre non
ha amato solo Gesù, al punto da ridargli vita dopo la morte, ma in lui
ha amato ciascuno di noi, iscrivendo anche la nostra vita nella logica
della risurrezione. L’amore di Dio è – per così dire – uscito dal guscio
della Trinità, non è rimasto chiuso all’interno di Dio, ma si è
riversato su di noi; questo amore ha un nome, lo Spirito Santo, che
rende attuale per noi il mistero della Pasqua di Gesù. |
Parlare dell’amore è parlare
della sostanza stessa della nostra vita. Nessuno vive senza amore: chi
non si sente amato, si deprime e si lascia morire. E' l'amore il senso
della vita, il centro della fede e il contenuto della speranza
.
L'uomo trova il senso della propria vita quando si sente amato; la gioia
del cristiano nasce dal sapersi amato da Dio. La speranza stessa sarebbe
una parola vuota, una pura categoria formale se non riposasse
nell'amore. La “teologia della speranza”, da sola, rischia il
formalismo, se non viene completata da una “teologia della carità” che
indica il contenuto e il fondamento di quella speranza. La speranza che
sostiene ogni nostra azione è, ultimamente, speranza
di-essere-amati-pienamente – lo abbiamo accennato parlando dei
deportati in campi di concentramento, ma ovviamente vale per tutti. La
molla di ogni speranza è proprio il desiderio di un amore pieno e
definitivo. E siccome questa pienezza non si verifica nell'esperienza
storica e immanente, ne deriva che la speranza ha senso se esiste un
amore trascendente che la appaga. |
L’uomo agisce perché spera di
essere amato di più, ma – per quanto cerchi sinceramente e per quanto
viva esperienze gratificanti – non raggiunge mai la pienezza di questo
amore sulla terra, eppure lo cerca sotto tutte le forme e in tutte le
maniere possibili; la sua vita sarebbe un grido senza risposta se non
esistesse questa pienezza. Anche l'uomo post-moderno, per quanto spenda
la sua speranza in maniera frantumata e ridotta, spera l'amore: lo spera
dagli idoli, dal denaro, dal successo; lo spera da una dinamica
religiosa emotivamente forte; ma non può mai raggiungerlo in pienezza.
Si tratta dunque di scegliere: il non senso di una vita che rinuncia
alla pienezza dell'essere-amati (surrogata in tanti modi) o il senso di
una vita che va verso la pienezza dell'essere-amati. E' nella carità che
si compiono gli altri due doni (più che ‘virtù’) teologali, la fede e la
speranza (cf. 1 Cor 13,8.13); la carità, infatti, è la sostanza stessa
di Dio (cf. 1 Gv 4,8.16). Perciò la speranza, va riempita con il
contenuto dell'amore. “Speranza esiste solamente là dove esiste amore, e
l'uomo può sperare, perché nel Cristo crocifisso l'amore si è
manifestato oltre la morte”
:
questo annuncio d'amore che vince la morte e riempie la vita – annuncio
quindi gioioso – è la chiave di lettura fondamentale dell'esistenza
cristiana, perché la prospettiva della vita eterna appaia capace di dare
senso e compimento alla vita terrena, anche oggi. |
E’ la concretezza
della risurrezione della ‘carne’ a fissare la meta della speranza
cristiana. La “risurrezione della carne” non è altro che l'estensione
universale della risurrezione di Cristo, nel quale si è già verificato
in maniera concentrata e puntuale il destino che si dispiegherà nel
cosmo e nella storia. Corpo e storia, cioè relazioni spazio-temporali,
entrano a pieno titolo nella speranza cristiana, se non vuole ridursi a
trascendimento senza trasformazione, ad illusione alienante. Dal punto
di vista teologico è come dire la parola amore. Se infatti si
evitano interpretazioni materialistiche e immaginose della risurrezione
della carne, essa risulta capace di nutrire la speranza: da una parte è
tutto l'uomo compreso il ‘corpo’ (relazioni, affetti... la propria
storia) ad essere salvato e dall'altra è un uomo trasfigurato,
‘spiritualizzato’, perché la salvezza sarà pienezza di vita e non
semplice ripresa della vita attuale. Per questo il ‘giudizio’ finale
verterà sull'amore (cf. Mt 25,31-46), che è l'unica realtà a passare
attraverso il filtro della morte. |
Se la salvezza è
compimento del ‘corpo’, cioè delle relazioni spazio-temporali intessute
durante la vita terrena, allora non ci si salva ‘in parte’ (salvezza
dell'anima) né ‘da soli’: si realizza la speranza di
essere-amati-pienamente solo passando attraverso il dono dell'amore: è
questo, in ultima analisi, che assicura il legame tra la trasformazione
e il trascendimento del presente, tra l'impegno attuale e l'attesa del
futuro, tra la dimensione immanente e quella trascendente del Regno di
Dio. La risurrezione finale è in tal modo antidoto sia contro lo
spiritualismo che contro l’individualismo, i due mai religiosi di oggi. |
Contro lo
spiritualismo, in quanto dà senso ad ogni momento già da ora. Dio
non lascia indietro nessun ‘pezzo’, come se si salvasse solo l’anima
immortale staccata dal corpo; il fatto che questa carne entri,
trasfigurata, nell’eternità, comporta che la speranza si nutra di gesti
d’amore, concreti e quotidiani, ‘corporei’... Chi non fa circolare
l’amore si trasforma in un binario morto e non prepara il suo corpo
alla trasfigurazione. Testimoniare la speranza cristiana allora non è
stare col naso all’insù aspettando che Dio faccia tutto (ciò che
rimproverava Paolo ai Tessalonicesi: cf. 2 Tess ), ma iniziare già da
ora a piantare nella terra semi di risurrezione corporea, cioè germi
d’amore. Chi semina l’amore è vero testimone di risurrezione, che lo
sappia o meno. Chi sparge la carità, a livello materiale, morale,
spirituale, sta alimentando la speranza nella risurrezione finale. La
speranza cristiana si nutre di gesti concreti di carità nella storia,
perché “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” (S. Giovanni
della Croce). |
La speranza
cristiana poi è antidoto anche contro l’individualismo. Non per
niente le immagini paradisiache del Nuovo Testamento fanno riferimento a
realtà comunitarie e gioiose – il banchetto, le nozze, la città – mentre
quelle infernali richiamano distruzione e solitudine (geenna, pianto,
stridore di denti). Il cristianesimo scommette non solo sulla sorte del
singolo, ma sulla sorte dell’umanità, sulla possibilità di riscatto per
gli svantaggiati. Le concezioni ‘escatologiche’ che prescindono dal
Trascendente appaiono insufficienti già per il fatto di non rispondere
alla speranza dell'uomo: il marxismo, anche nella sua versione
blochiana, piega il singolo ad una collettività finale, lasciando
irrisolta la domanda sul senso della vita di miliardi di esseri umani
‘sacrificati” lungo il cammino; e il liberalismo, alleato del capitalismo, crea
prospettive solo per pochi, lasciando la grande massa dell’umanità nella
miseria. |
Davanti a queste
speranze terrene, in grado di accontentare solo alcuni nella storia e
nel mondo, il cristianesimo pone questa scomoda ma decisiva domanda: c’è
o no una speranza per tutta l'umanità, specialmente per quella
immensa fetta di persone che non ha ricevuto amore e pane a sufficienza,
è stata calpestata nei suoi diritti fondamentali, ha subìto
ingiustamente violenza e abbandono? Esiste o no una giustizia
universale? Questa è la scommessa della speranza cristiana. Finché
l'uomo ragiona sulla sua singola sorte, può sempre sperare di cavarsela
senza troppi danni, di vivere assaporando una sufficiente dose di
felicità... ciascuno può dire al singolare, insomma, “io speriamo che me
la cavo”. Finché ragiona solo sulla sua sorte l’uomo può in un certo
senso anestetizzarsi: ma non può anestetizzare il dolore dell'umanità;
non può insinuare alcuna speranza nella sorte di coloro che sono
schiacciati da peso di una sofferenza e di una morte assurde ed
innocenti. La speranza cristiana è, in ultima analisi, la scommessa che
non solo la vita del singolo ma la vita dell'intera umanità ha senso. Se
come ho accennato Gesù, a differenza di Giulio Cesare o di Socrate, non
è stato un vero e proprio eroe davanti alla propria morte – ha emesso,
anzi, “forti grida e lacrime” (Ebr 5,7) – è perché egli doveva fare i
conti non solo con la propria sorte, ma con la sorte dell'intera
umanità, che si era addossata. Il grido sulla croce “Dio mio, perché
mi hai abbandonato?” (Mt 27,46) dà voce a tutta l'umanità, che egli in
quel momento rappresentava e con la quale era profondamente solidale. |
Liberandosi dalle
strettoie di un'impostazione troppo individualistica, la teologia
contemporanea recepisce la dimensione comunitaria della speranza:
“il vangelo non ha pronta alcuna consolazione per il singolo, che non
significhi nello stesso tempo una promessa di avvenire per l'umanità nel
suo insieme”.
Chi vive solidarizzando con le sorti dell'umanità intera, è spinto
dall'amore a ricercare una speranza che possa valere per tutta
l'umanità: speranza che rimarrà sempre deludente ed insoddisfacente
fuori dal mistero pasquale, l'unico in grado di prospettare un riscatto
all'ingiustizia ed una valorizzazione completa della vita terrena;
l'unico, cioè, in grado di dare senso alla sorte dell'intera umanità. |
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Conclusione |
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Per concludere, si
potrebbe dire che la nostra speranza tende specularmente ad appagarsi,
alla fine della vita, in quella stessa esperienza che sta all’inizio
della vita: l’essere accolti nelle braccia di qualcuno che ci ama. E’
presente nel cristianesimo, a partire dalla teologia del martirio per
allargarsi poi alla situazione di tutti, l’idea della morte come ‘nuova
nascita’, ‘vera nascita’: il giorno della morte è il dies natalis.
E’ una delle espressioni più audaci della speranza cristiana: riempire
l’esperienza detestabile e traumatica della morte con la sostanza
desiderabile della nascita. Così il cristiano vive come tre nascite:
quella naturale, quella battesimale (simbolismo della nascita
chiarissimo nel NT) e quella finale della sua vita. Come le prime due
sono un ‘morire’ ad un tipo di vita per essere accolti ad un altro tipo
di vita, che ha una certa continuità ma una maggiore discontinuità, così
la terza. La nascita fisica infatti è un’esperienza di abbandono della
vita nel grembo materno, calda e sicura, per essere lanciati nella vita
sociale; non a caso il passaggio è fisiologicamente segnato dal pianto:
è un trauma, un salto nel vuoto; eppure è necessario perché quell’essere
umano riceva e dia il suo contributo. Poi l’esperienza dell’essere
accolto, accudito, pulito, sfamato – in una parola dell’essere-amato
gratuitamente da qualcuno – ripaga la fatica del nascere, introduce ad
una dimensione insperata. La ‘nuova nascita’, il battesimo, rappresenta
di nuovo una morte (al peccato, a Satana) e l’abbraccio di una nuova
vita attraverso un salto nel vuoto; anche in questo caso il salto
avviene “per grazia” – si entra nella Chiesa non sulla base di un
concorso o di una selezione morale, ma di una gratuita accoglienza – ed
anche allora si scopre una dimensione insperata della vita (come spesso
fanno notare coloro che si convertono in età adulta e descrivono il
passaggio come salto verso la luce – da una vita in bianco e nero a una
vita a colori). L’ultima nascita, quella finale della nostra esistenza,
passa pure attraverso una morte: la morte a questa dimensione terrena,
la cessazione dei legami nella forma attuale; ed è questo che ci
spaventa – giustamente. La speranza cristiana dice che uno ha già
compiuto questo salto con successo, attraverso la morte è entrato nel
mondo divino con il suo corpo trasfigurato; ci dice che la morte non è
semplicemente la raccolta delle sventure e ingiustizie del mondo, ma il
passaggio ad una dimensione insperata di pienezza. Anche in questa terza
nascita è questione di “grazia”, perché non potremo mai meritare
quell’accoglienza amorevole che Cristo prospetta a chi, esplicitamente o
implicitamente, si è affidato al Padre nella sua vita terrena. |
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Diocesi di Rimini –
29 settembre 2005 |
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Essere Testimoni
del Risorto |
“Pronti a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” |
(1 Pt 3,15) |
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(schema della
relazione di d. Erio Castellucci) |
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“Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori ” |
La condizione preliminare della trasmissione della speranza:
coltivarla nel cuore |
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“Pronti sempre a rispondere” |
Il primo passo della trasmissione della speranza: la cura della
domanda |
-
il rischio della facile risposta e il rischio dell’agguato |
-
la speranza cristiana come proposta capace di suscitare la
domanda |
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“A chiunque” |
Le speranze umane
di sempre e di oggi |
-
la
speranza come colonna vertebrale della vita umana |
-
Il
problema delle méte: necessità di continui ‘progetti’ |
-
La
speranza di sempre: essere felici; superamento dei problemi materiali,
della solitudine, della morte. |
-
Le
speranze di oggi: ridimensionamento della fiducia nel progresso
scientifico e culturale; filosofia e teologia della speranza;
frantumazione della speranza nella post-modernità |
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“Domandi ragione” |
La ragionevolezza
della speranza cristiana |
-
I tre
livelli della testimonianza: l’esempio personale (volontà),
l’argomentazione (ragione) e l’offerta di relazione (esperienza). |
-
La
dannosa identificazione tra fede e sentimento. |
-
La
ragionevolezza del cristianesimo: opzione per il mistero anziché per
l’assurdo. L’obiezione di Feuerbach (meccanismo della ‘proiezione’). |
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“Della speranza
che è in voi” |
Cristo Risorto,
perno della speranza cristiana |
-
Il nucleo
del primo annuncio cristiano: la risurrezione di Gesù |
-
Incarnazione, morte e risurrezione di Cristo come ‘risposta’ alle
speranze umane |
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Risurrezione di Gesù e risurrezione della carne: un’unica speranza; la
concretezza del ‘corpo’, contro lo spiritualismo e l’individualismo. |
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