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Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo

(Testo trasmesso dal prof. Cesare Saccani della Sezione AIDU di Bologna)

Bologna, S. Sigismondo, incontro con i docenti universitari – 31 marzo 2006

 

Prof. Don Erio Castellucci, Preside della Facoltà di Teologia

 

“Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24,21). “Noi speravamo”: questo verbo imperfetto, in bocca a uno dei due discepoli di Emmaus, tradisce amarezza, disillusione, sconforto. Ogni loro speranza era stata sepolta con il corpo di Gesù. Non restava che volgere le spalle a Gerusalemme e riprendere la vita di prima. La croce per i due discepoli ha segnato il crollo delle speranze riposte su Gesù: se la sua vicenda è finita così, vuol dire che non era il liberatore di Israele, come aveva preteso, ma un impostore.

Quando i discepoli di Emmaus ragionavano così non avevano ancora riconosciuto il Risorto né creduto all’annuncio della risurrezione di Gesù; è logico quindi che non sapessero che la loro speranza era stata ben riposta. Ma anche dopo le apparizioni e la diffusione della fede pasquale, non sempre la verità della risurrezione di Gesù si mostra nei fatti capace di sostenere la speranza dei cristiani. Ne è testimonianza impressionante il dibattito condotto da Paolo con i Corinti, nella sua prima lettera a quella comunità: a due riprese dichiara “vana” la fede di quei cristiani che non credono alla risurrezione di Gesù (cf. 1 Cor 15,14.17: cf. 15,1-11) e degna di compianto la speranza in Cristo limitata a questa vita: “se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (15,19; cf. 15,20-28). La speranza di cui parla qui Paolo, basata sulla fede nel Risorto, è quella della risurrezione finale dei morti, alla quale i Corinti – da buoni greci – stentavano a credere.

La speranza cristiana è come un’ellissi che ruota attorno a due fuochi: il fuoco maggiore è la risurrezione di Cristo, nucleo propulsore dal quale prende avvio l’annuncio cristiano; il fuoco minore è la risurrezione dei morti (o della carne o del corpo) alla fine dei tempi. Il passaggio dall’uno all’altro dei fuochi è così stabilito da Paolo: “Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15,20). La risurrezione di Cristo, insomma, già avvenuta in lui e promessa in noi, è il centro della speranza della Chiesa.

 

In questa piccola riflessione terrò sullo sfondo il documento offerto dalla CEI alla riflessione delle diocesi italiane in vista del Convegno ecclesiale nazionale di Verona nell’ottobre 2006: “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”.[1]


 

 

Il primo passo della trasmissione della speranza: la cura della domanda

 

La speranza va comunicata. La fede nel Risorto ha questa intima struttura estroversa, come risulta dai racconti pasquali di apparizione: chi riconosce Gesù è invitato ad annunciarlo. Sintomatica la frase del Risorto alla Maddalena dopo il riconoscimento vicino al sepolcro: “Non mi trattenere... ma va’ dai miei fratelli” (Gv 20,17). Il Risorto non deve essere trattenuto per sé, ma donato agli altri. La speranza cristiana quindi non è fatta per essere semplicemente conservata ma per essere comunicata. La speranza è così per 1 Pt una “responsabilità”, deve “rispondere” a qualcuno, deve rendere conto di se stessa davanti ad altri.

Credo che a questo proposito vada evitata una trappola nella quale noi cristiani rischiamo di cadere troppo ingenuamente: quella di dare facili risposte senza avere ascoltato a fondo le domande. Lo schema che vuole l’uomo di oggi infelice e disperato, al quale il cristiano va incontro con la sua speranza donandogli finalmente la felicità, è molto poetico ma è purtroppo spesso contraddetto dall’esperienza. Forse uno dei problemi pastorali fondamentali, nella trasmissione della fede, sta proprio in questa sfasatura tra domanda e risposta. Noi elaboriamo risposte anche molto approfondite ed argomentate, ma senza talvolta tenere conto della domanda; così la nostra argomentazione è perfetta, da manuale, ma non produce molto. Il fatto è che tante persone, pur dichiarandosi lontane dalla fede e dalla Chiesa, non avvertono infelicità né tanto meno disperazione. Un insegnante di religione delle superiori una volta mi diceva: “a scuola passo la maggior parte del tempo a cercare di convincere i ragazzi che non sono felici, ma il risultato è scarso...”.

A questa prima trappola se ne connette immediatamente una seconda: quella di prospettare a chi non crede un futuro realisticamente toccato dalla sofferenza e dalla disperazione, nel quale Dio dovrà trovare un posto, se non ci si vuole disperare. Fino a qualche tempo fa io cadevo in entrambe le trappole, sia nella catechesi come nelle omelie e nei dialoghi personali. In particolare mi ci faceva cadere un mio amico ateo, compagno di scuola alle superiori e ora avvocato, con il quale prosegue da ormai trent’anni un dibattito ininterrotto sulla fede. Da seminarista, cercavo anch’io di convincerlo che senza la fede lui non poteva stare bene e, se non proprio disperato, almeno infelice doveva esserlo di sicuro. Ma lui mi ribadiva sempre che, a parte qualche piccolo fastidio episodico, stava benissimo e non era affatto triste. Allora cambiai tattica, e in seguito introdussi un’altra argomentazione, il cui succo era questo: “adesso magari non sei triste, ma vedrai che tra qualche tempo, forse prima di quello che pensi, anche a te verranno addosso delle sofferenze e delle disgrazie, e allora sarai infelice e disperato”. Così rivestivo i panni da una parte del facile profeta e dall’altra del profeta di sventure. La sua reazione, dopo alcuni gesti di scongiuro, era decisa: diceva che i cristiani e ancora di più i preti sono degli avvoltoi, perché aspettano la morte degli altri per poter proclamare la vittoria della loro fede in Dio e nell’aldilà...

Aveva ragione lui, in fondo. Se davvero la speranza cristiana potesse risuonare solo dentro alla disperazione umana, sarebbe solo un rattoppo. Nascono di qui alcune questioni vitali per la comunicazione odierna della fede: come presentare credibilmente i grandi orizzonti della speranza cristiana a uomini che spesso non ne avvertono il bisogno?. E' necessario forse “prenderli per fame”, aspettando che sperimentino delusioni e fallimenti, per poter mettere loro davanti – come una tavola imbandita – la prospettiva dell'eternità? E' necessario attendere, per annunciare la bella notizia, che l'uomo si trovi in una brutta situazione? E' indispensabile che venga scottato dall'esperienza della paura, della morte, del dolore? E' inevitabile che l'annuncio della speranza cristiana si innesti sulla disperazione?

E’ vero: l'esperienza dello scacco può costituire effettivamente un’occasione di riscoperta della speranza cristiana, come segnala Marcel quando parla della speranza come di una realtà strettamente legata alla ‘prova’,[2], e come registra l’esperienza pastorale, ogni volta che riscontra nelle persone una maggiore disponibilità ad accogliere una salvezza dal di fuori, quanto non possono raggiungerla con le loro forze. E tuttavia non possiamo ridurre l'annuncio della speranza cristiana ad un rattoppo da mettere su uno strappo. Rischierebbero allora di avere ragione Marx, Nietzsche e Freud quando presentano la categoria di ‘illusione’ come struttura-base della religione e delle sue speranze ultraterrene.[3] Dio sarebbe quel ‘tappabuchi’ che D. Bonhöffer avversava con tutte le sue forze;[4] la speranza cristiana dovrebbe intervenire solo quando la ragione fallisce; la grazia farebbe irruzione quando il merito non ha più le forze; Dio occuperebbe gli spazi del fallimento dell'uomo; la vita eterna diventerebbe credibile solo quando la vita terrena non ha più nulla da dare. Come aveva intuito il genio di F. Dostoevskij, Dio in tal caso servirebbe all’uomo solo nel buio della notte, potendo essere accantonato dall’alba al tramonto.[5]

Se però vuol essere davvero credibile, la trasmissione della speranza cristiana deve essere possibile non solo come “compensazione della tristezza” ma anche come “pienezza della gioia”. Il cristianesimo deve mostrarsi non solo capace di rispondere a dei bisogni espressi[6] ma anche in grado di suscitarne dei nuovi, o meglio, di rendere l'uomo cosciente che esistono possibilità insospettate di realizzazione. In questo senso, allora, la speranza cristiana deve non solo poter “rispondere” alle domande che salgono dalle situazioni di tristezza, ma anche suscitare dentro le situazioni gioiose la domanda sulla “pienezza” e sul “significato”.

Molti, certo, non sentono il bisogno di porsi domande profonde riguardanti il senso pieno delle esperienze che stanno vivendo; c’è chi non sospetta neppure che esista un senso pieno e comunque non se ne preoccupa. Chi è sempre vissuto in pianura, non può desiderare la bellezza degli Appennini, almeno fino a quando un altro non gliene parla e, magari, lo convince a fare una passeggiata con lui; da allora, forse, la campagna gli starà troppo stretta; se, poi, avrà modo di fare una scalata sulle Alpi e di ammirarne i ghiacciai e i grandiosi panorami, gli Appennini stessi non gli basteranno più. Più uno osa andare in profondità, meno si appaga della superficialità. L’annuncio della speranza evangelica non ha solo la funzione di rispondere ai bisogni coscienti, ma anche quella di suscitare bisogni profondi, inquietudini salutari: perché Dio ha creato l'uomo per le vette; chi si ferma in pianura, anche ci si trova bene, non estrae dalla vita tutta la gioia possibile. Chi assapora la bellezza del Vangelo non è più appagato dagli idoli del mondo. Il cristianesimo non sazia solo la sete, ma ne provoca una più raffinata ed intensa: l'annuncio dell'acqua che zampilla per la vita eterna si innesta, è vero, sulla sete di chi si sarebbe accontentato dell'acqua dal pozzo di Giacobbe (cf. Gv 4), ma non si ferma a rispondere a quel bisogno: ne suscita uno più grande, che era stato sopito e di cui neppure v’era consapevolezza.

Di qui la grande importanza per i cristiani della testimonianza gioiosa della speranza, dove la preoccupazione non è tanto quella di approfittare delle sofferenze umane, quanto quella di lasciar trasparire la bellezza del Vangelo, di insinuare il dubbio che vi siano mete più alte. Speranza e gioia vanno a braccetto: se c'è qualcosa che può mettere in crisi le sicurezze di chi sta bene anche in pianura,, è la gioia dei cristiani; la testimonianza che la vita cristiana è vita anche umanamente piena, perché il Vangelo non è tanto supplenza quanto pienezza della felicità umana in tutti i suoi risvolti: amicizia, affetti, bellezza, pace, giustizia. Certo questi valori, assunti dal Vangelo, vengono purificati in un processo che comporta anche fatica e distacco: ma ciò che è autenticamente umano non scompare, anzi, è esaltato.

Mi sembra che S. Agostino avvertisse questa dimensione con ineguagliata intensità, quando vedeva nel perseguimento della felicità, sotto qualunque forma, una ricerca almeno implicita di Dio, che possiede in misura somma ogni felicità. Scrive ad esempio: “l’orgoglio simula l’eccellenza, mentre il solo Dio eccelso al di sopra di tutte le cose sei tu. L’ambizione a che altro aspira se non a onori e gloria, mentre tu solo sopra tutto meriti onore e gloria eterna? La crudeltà dei potenti mira a incutere timore; ma chi è davvero temibile se non Dio solo, al cui potere cosa si può strappare o sottrarre, e quando, dove, come, da chi? Le seduzioni delle persone lascive, poi, mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente della tua carità, né vi è amore più salutare di quello della tua verità, tanto è bella e splendente oltre ogni cosa. La curiosità si atteggia a desiderio di conoscenza, mentre chi conosce tutto e in sommo grado sei tu; persino l’ignoranza e la scempiaggine si coprono col nome di semplicità e innocenza, poiché si trova nulla più semplice di te e c’è cosa più innocente di te, se ai malvagi stessi nuocciono le opere loro? La pigrizia dal canto suo sembra cercare quiete, ma esiste quiete sicura senza il Signore? Il lusso vuol esser chiamato soddisfazione e copiosità di mezzi; sei tu però la pienezza e l’abbondanza inesauribile d’incorruttibili bellezze. La prodigalità si copre con l’ombra della liberalità, ma il più copioso dispensatore di ogni bene sei tu. L’avarizia aspira a possedere molto, mentre tu possiedi tutto. L’invidia disputa per eccellere, ma cosa eccelle più di te? L’ira vuole vendetta, ma quale vendetta è più giusta della tua? La pavidità trema, nella sua ricerca di sicurezza, dei pericoli insoliti e repentini che incombono sugli oggetti d’amore; a te infatti riesce qualcosa insolito, repentino? O qualcuno ti può privare degli oggetti del tuo amore? E dove si è saldamente sicuri se non al tuo fianco? La tristezza si rode per la perdita dei beni, di cui si dilettava la cupidigia, poiché vorrebbe che, come a te, così a sé nulla si potesse togliere. In queste forme l’anima pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il candore, che non trova se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te”.[7]

L'impegno dell’evangelizzazione dovrebbe essere forse diretto meno a condannare le idee e i comportamenti e più a testimoniare come il Vangelo sia capace di assumere, purificare e portare a pienezza l'umano [8]. Certo i valori umani, assunti dal Vangelo, vengono purificati in un processo che comporta anche fatica e distacco: ma ciò che è autenticamente umano non scompare, anzi, è esaltato. La salvezza cristiana sperata inizia da ora: è salvezza ‘integrale’, che prende forma già nella storia umana. Riprenderemo il filo del discorso quando avremo affrontato meglio il tema della risurrezione di Gesù come contenuto essenziale della speranza.

 

La speranza, struttura di fondo dell’azione umana

 

L'uomo è l'essere che spera: “Ogni uomo vive in quanto ha delle aspirazioni e fa dei progetti, in quanto, spera, insomma”[9]. Sperare e vivere, in un certo senso, si identificano: l'uomo spera di vivere (bene e sempre) e può vivere quando spera. L'esperienza dimostra che perfino le situazioni-limite, dove le forze umane – fisiche e psichiche – sembrano esaurite, possono essere sopportate e superate dall'uomo che “spera” di uscirne; le situazioni apparentemente appaganti, al contrario, si rivelano insufficienti a sostenere la volontà di vivere, quando non sono accompagnate dalla speranza di una meta ulteriore. Come afferma E. Brunner: “la speranza rappresenta per la vita umana ciò che è l'ossigeno per i polmoni. Se si elimina l'ossigeno, sopraggiunge la morte per soffocamento. Se si elimina la speranza, sopraggiunge negli uomini l'affanno cioè la disperazione, la paralisi della molla spirituale dell'anima, con un senso di nullità, di assurdità della vita”[10]. La speranza si rivela così come la struttura antropologica fondamentale, la colonna vertebrale che sostiene ogni azione ed ogni pensiero dell'uomo[11].

Diversi anni fa, dopo avere visitato il campo di sterminio di Dachau, lessi alcune opere riguardanti i lager nazisti, per farmi un’idea di quanto era capitato in quei drammatici anni: alcuni resoconti storici, qualche romanzo e una sorta di reportage sugli esperimenti cosiddetti scientifici ai quali i medici nazisti sottoponevano i prigionieri. Oltre alle innumerevoli atrocità, mi impressionava un dato: molti dei prigionieri riuscivano a sopravvivere in condizioni oggettivamente impossibili. Quelli che non morivano perché uccisi direttamente o perché soccombevano fisicamente, attraversavano tenacemente situazioni di umiliazione indescrivibile, fame e sete, malattie di ogni tipo, sfruttamento fisico per lavori di una fatica disumana. Un decimo di quella sofferenza mi appariva sufficiente ad abbattere chiunque: eppure alcuni ce la facevano. Cosa li sosteneva? Credo soprattutto una cosa: la speranza di riabbracciare i loro cari. Questo ‘progetto’ per alcuni si rivelò più potente della disumanità sperimentata, e riuscirono a realizzarlo. E’ illuminante in proposito quanto nel suo Diario scriveva l’11 luglio 1942 Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese poi morta anch’essa in campo di sterminio nazista. Pensando alle persone da lei più amate, con le quali era allora impossibile comunicare: “Esteriormente si è scaraventati lontano, e i sentieri che ci collegano rimangono sepolti sotto le macerie (...). La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita in comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di ritrovarci ancora su questa terra?”.[12] All’incirca in quello stesso periodo in cui leggevo questi saggi, capitò che alcuni personaggi abbastanza famosi, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, si tolsero la vita. Per quale motivo? Apparentemente avevano raggiunto il successo e sicuramente anche il denaro... che cosa era venuto a mancare? Forse non avevano uno scopo più grande in cui inserire quelle mete? Forse il raggiungimento di mete materiali non è da solo appagante? In ogni caso, il contrasto non poteva essere più vistoso: da una parte persone che, ridotte allo stremo delle forze, riescono a farcela sostenute dalla speranza; dall’altra persone che, raggiunto l’apice del successo, perdono la speranza al punto da non sopportare più la vita.

Per illuminare meglio questo meccanismo ci può aiutare una intuizione che alla fine dell’Ottocento guidò il grande filosofo cattolico francese Blondel, nella sua tesi di laurea L’Action: ogni volta che l’uomo agisce, a qualsiasi livello delle sue capacità, con questo stesso agire dimostra che spera; l’azione è investimento di speranza, è attestazione di speranza; se l’uomo non sperasse, resterebbe immobile. In termini più fedeli al linguaggio di Blondel: l'uomo è spinto ad agire dalla volontà (volonté voulante), che si propone una meta; una volta però raggiunta quella meta, la volontà che in essa si è concretizzata (volonté voulue) è insoddisfatta e mira sempre oltre. Questo meccanismo vale per tutta la gamma delle azioni umane: da quelle più intime che riguardano il pensiero, a quelle via via più esterne, che riguardano i rapporti con il mondo, con gli altri uomini e con il divino. Questa è la dinamica dell'azione che, per lui, postula ultimamente un Soprannaturale che appaghi la volontà; in caso contrario la vita non ha senso, perché sarebbe un indefinito girare a vuoto sempre inappagato e senza alcuna meta.[13] La riflessione blondeliana ha influenzato i maggiori teologi del Novecento (da Rahner a Balthasar, da De Lubac ad Alfaro).

L’intuizione di Blondel si può oggi esprimere anche così: l’uomo “va sempre oltre le sue speranze, le precede. Esiste un dislivello insuperabile fra la profonda tensione del suo spirito che lo spinge ad operare, e i risultati concreti della sua azione nel mondo. Se non esistesse, l'uomo si troverebbe nell'incapacità di decidere e di agire; perché possa continuare il suo impegno per la trasformazione del mondo, la sua speranza deve continuamente superare le mete raggiunte. L'azione dell'uomo sul mondo, quindi, nella sua stessa dialettica interna, porta con sé l'impossibilità della di lui pienezza intramondana”[14]. Quando infatti l’uomo si dà delle mete e le raggiunge, se non pro-getta (letteralmente: getta più avanti) subito altre mete più elevate, rischia di rimanere deluso e deprimersi. Se invece rilancia, allora si rimette in moto, mantiene la tensione ed evita di ricadere su se stesso.

 

Qualsiasi meta nella vita terrena, una volta raggiunta, deve essere trampolino per una meta ulteriore, perché da sola non appaga mai completamente la sete umana di felicità. Se l’avere, il piacere e il potere non rientrano in un progetto più grande di loro e si trasformano invece in mete ultime, inevitabilmente ricadono su chi le ha perseguite e lo trascinano nella valle della delusione o della disperazione. Progettare è l’anima della speranza: gettare sempre oltre, rilanciare sempre la meta più avanti, puntare su qualcosa che è più in alto. Considerate in quest’ottica, le mete spirituali che il Vangelo propone, riassumibili nella santità, sono fortemente... anti-depressive, perché sono sempre oltre ciò che l’uomo può raggiungere; chi si dà il Dio cristiano come meta ultima, non perde mai la tensione verso qualcosa che sta oltre ogni possibile traguardo: Dio è sempre oltre e ci chiede un amore che è più in là delle nostre realizzazioni. Il percorso della santità cristiana è quindi un incessante cammino di speranza, un progetto dove ogni meta raggiunta è provvisoria e guarda già più avanti. In questo progetto rientrano anche le mete materiali, come il potere, il piacere e l’avere: sono dimensioni che non vengono affatto rifiutate dal cristianesimo, ma vengono collocate nella loro giusta funzione – quella appunto di mezzi per amare di più – essendo unico fine della vita la felicità che viene dall’amore di Dio e del prossimo. Se vissute (da ciascuno secondo la propria vocazione) come strumenti e non come mete, cioè se fatte rientrare in un progetto di santità, le tre dimensioni dell’avere, del piacere e del potere contribuiscono ad alimentare la speranza.

 

Cristo Risorto, perno della speranza cristiana

 

Il contenuto essenziale della speranza cristiana, come ho detto nell’introduzione, ruota attorno alla parola ‘risurrezione’: di Gesù e nostra. La risurrezione è un mistero d’amore: chi ama vuole che l’amato viva, non ne può sopportare la morte. E Dio non si sottrae a questa logica d’amore: “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Tutto partì dalla fede nella risurrezione di Gesù, che rese evidente ai primi cristiani la sua identità divina e il senso della croce. Se per assurdo cancellassimo la risurrezione, cosa resterebbe della vita di Gesù, della sua persona e del suo messaggio? Egli non sarebbe altro che uno dei grandi uomini comparsi sulla terra e poi da essa scomparsi... Certo rimarrebbe un pensatore originale: ma non del tutto, poiché pescava abbondantemente dall’Antico Testamento; e comunque originale non più di un Platone o di un Confucio. Certo, resterebbe anche un uomo coerente: ma con qualche cedimento in prossimità della sua morte, diversamente da un Socrate o da un Giulio Cesare che affrontarono una sorte analoga a viso aperto. Certo, sarebbe comunque un maestro di verità elevate: ma non più di un Buddha, che radunò molte centinaia di discepoli attorno ad una dottrina ancora oggi in buona salute.

Senza la risurrezione, in realtà, la vita, la predicazione e l’opera di Gesù sarebbero quasi certamente cadute in oblio. Nessuno avrebbe avuto interesse a recuperare la vicenda e le idee di uno che aveva avanzato pretese messianiche esorbitanti e che poi era finito sulla croce, massimo segno di vergogna e abbandono non solo da parte degli uomini ma anche di Dio. E nessuno avrebbe ripescato un messaggio e un’etica basati sul dono di sé, se fosse stato persuaso che proprio colui che l’aveva predicata era stato ucciso ed eliminato definitivamente per averla messa in atto. Se le donne e i discepoli, il giorno di Pasqua, non avessero avuto la certezza che era risorto, quasi certamente anche il ricordo di Gesù sarebbe rimasto sepolto con lui. Da questa fede nel Risorto è nato invece l’annuncio cristiano, è nata la stessa Chiesa.

Inizialmente la fede si riassumeva attorno a questa frase scarna: “Dio ha risuscitato Gesù dai morti”, senza che nemmeno chi la pronunciava ne capisse tutte le implicazioni. L’annuncio cristiano è scaturito dunque da una ‘piccola storia’, di poche ore: all’inizio del cristianesimo non c’è una riflessione teorica su Dio, un sistema etico o una normativa, ma questa piccola storia. Poi a poco a poco i cristiani hanno compreso che cosa significava per la Persona di Gesù: hanno riletto le Scritture ebraiche alla luce della sua risurrezione, hanno capito che la croce non era fallimento ma dono totale, hanno compreso che Gesù era il Figlio di Dio incarnato... hanno cioè cominciato a fissare le verità cristiane essenziali attorno al mistero pasquale. Ancora più avanti ne hanno dedotto per loro anche una vita morale diversa da quella pagana – la “vita nuova” di cui parla Paolo, fondata non sulle opere della carne ma sul frutto dello Spirito (cf. Gal 5,16-22) – ed hanno gradualmente raccolto quanto Gesù aveva detto e compiuto, interpretandolo alla luce della sua risurrezione.

 

Ma il mistero pasquale non ci interesserebbe molto se avesse coinvolto solo Gesù: al massimo saremmo contenti per lui, ma questo non basterebbe certamente ad alimentare la nostra speranza. Ora invece Cristo è risorto come “nostra primizia” (1 Cor 15,20), come “primogenito” dei risorti da morte (cf. Col 1,18). La speranza cristiana allora non è una vaga tensione verso il futuro, è bensì fondata su un evento i cui effetti certo si compiranno alla fine ma che è già accaduto nella storia e i cui effetti si stanno già dispiegando. Se “la speranza non delude”, per usare le parole di Paolo, è solo “perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5,5). Il Padre non ha amato solo Gesù, al punto da ridargli vita dopo la morte, ma in lui ha amato ciascuno di noi, iscrivendo anche la nostra vita nella logica della risurrezione. L’amore di Dio è – per così dire – uscito dal guscio della Trinità, non è rimasto chiuso all’interno di Dio, ma si è riversato su di noi; questo amore ha un nome, lo Spirito Santo, che rende attuale per noi il mistero della Pasqua di Gesù.

Parlare dell’amore è parlare della sostanza stessa della nostra vita. Nessuno vive senza amore: chi non si sente amato, si deprime e si lascia morire. E' l'amore il senso della vita, il centro della fede e il contenuto della speranza [15]. L'uomo trova il senso della propria vita quando si sente amato; la gioia del cristiano nasce dal sapersi amato da Dio. La speranza stessa sarebbe una parola vuota, una pura categoria formale se non riposasse nell'amore. La “teologia della speranza”, da sola, rischia il formalismo, se non viene completata da una “teologia della carità” che indica il contenuto e il fondamento di quella speranza. La speranza che sostiene ogni nostra azione è, ultimamente, speranza di-essere-amati-pienamente – lo abbiamo accennato parlando dei deportati in campi di concentramento, ma ovviamente vale per tutti. La molla di ogni speranza è proprio il desiderio di un amore pieno e definitivo. E siccome questa pienezza non si verifica nell'esperienza storica e immanente, ne deriva che la speranza ha senso se esiste un amore trascendente che la appaga.

L’uomo agisce perché spera di essere amato di più, ma – per quanto cerchi sinceramente e per quanto viva esperienze gratificanti – non raggiunge mai la pienezza di questo amore sulla terra, eppure lo cerca sotto tutte le forme e in tutte le maniere possibili; la sua vita sarebbe un grido senza risposta se non esistesse questa pienezza. Anche l'uomo post-moderno, per quanto spenda la sua speranza in maniera frantumata e ridotta, spera l'amore: lo spera dagli idoli, dal denaro, dal successo; lo spera da una dinamica religiosa emotivamente forte; ma non può mai raggiungerlo in pienezza. Si tratta dunque di scegliere: il non senso di una vita che rinuncia alla pienezza dell'essere-amati (surrogata in tanti modi) o il senso di una vita che va verso la pienezza dell'essere-amati. E' nella carità che si compiono gli altri due doni (più che ‘virtù’) teologali, la fede e la speranza (cf. 1 Cor 13,8.13); la carità, infatti, è la sostanza stessa di Dio (cf. 1 Gv 4,8.16). Perciò la speranza, va riempita con il contenuto dell'amore. “Speranza esiste solamente là dove esiste amore, e l'uomo può sperare, perché nel Cristo crocifisso l'amore si è manifestato oltre la morte” [16]: questo annuncio d'amore che vince la morte e riempie la vita – annuncio quindi gioioso – è la chiave di lettura fondamentale dell'esistenza cristiana, perché la prospettiva della vita eterna appaia capace di dare senso e compimento alla vita terrena, anche oggi.

E’ la concretezza della risurrezione della ‘carne’ a fissare la meta della speranza cristiana. La “risurrezione della carne” non è altro che l'estensione universale della risurrezione di Cristo, nel quale si è già verificato in maniera concentrata e puntuale il destino che si dispiegherà nel cosmo e nella storia. Corpo e storia, cioè relazioni spazio-temporali, entrano a pieno titolo nella speranza cristiana, se non vuole ridursi a trascendimento senza trasformazione, ad illusione alienante. Dal punto di vista teologico è come dire la parola amore. Se infatti si evitano interpretazioni materialistiche e immaginose della risurrezione della carne, essa risulta capace di nutrire la speranza: da una parte è tutto l'uomo compreso il ‘corpo’ (relazioni, affetti... la propria storia) ad essere salvato e dall'altra è un uomo trasfigurato, ‘spiritualizzato’, perché la salvezza sarà pienezza di vita e non semplice ripresa della vita attuale. Per questo il ‘giudizio’ finale verterà sull'amore (cf. Mt 25,31-46), che è l'unica realtà a passare attraverso il filtro della morte.

Se la salvezza è compimento del ‘corpo’, cioè delle relazioni spazio-temporali intessute durante la vita terrena, allora non ci si salva ‘in parte’ (salvezza dell'anima) né ‘da soli’: si realizza la speranza di essere-amati-pienamente solo passando attraverso il dono dell'amore: è questo, in ultima analisi, che assicura il legame tra la trasformazione e il trascendimento del presente, tra l'impegno attuale e l'attesa del futuro, tra la dimensione immanente e quella trascendente del Regno di Dio. La risurrezione finale è in tal modo antidoto sia contro lo spiritualismo che contro l’individualismo, i due mai religiosi di oggi.

Contro lo spiritualismo, in quanto dà senso ad ogni momento già da ora. Dio non lascia indietro nessun ‘pezzo’, come se si salvasse solo l’anima immortale staccata dal corpo; il fatto che questa carne entri, trasfigurata, nell’eternità, comporta che la speranza si nutra di gesti d’amore, concreti e quotidiani, ‘corporei’... Chi non fa circolare l’amore si trasforma in un binario morto e non prepara il suo corpo alla trasfigurazione. Testimoniare la speranza cristiana allora non è stare col naso all’insù aspettando che Dio faccia tutto (ciò che rimproverava Paolo ai Tessalonicesi: cf. 2 Tess ), ma iniziare già da ora a piantare nella terra semi di risurrezione corporea, cioè germi d’amore. Chi semina l’amore è vero testimone di risurrezione, che lo sappia o meno. Chi sparge la carità, a livello materiale, morale, spirituale, sta alimentando la speranza nella risurrezione finale. La speranza cristiana si nutre di gesti concreti di carità nella storia, perché “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” (S. Giovanni della Croce).

 La speranza cristiana poi è antidoto anche contro l’individualismo. Non per niente le immagini paradisiache del Nuovo Testamento fanno riferimento a realtà comunitarie e gioiose – il banchetto, le nozze, la città – mentre quelle infernali richiamano distruzione e solitudine (geenna, pianto, stridore di denti). Il cristianesimo scommette non solo sulla sorte del singolo, ma sulla sorte dell’umanità, sulla possibilità di riscatto per gli svantaggiati. Le concezioni ‘escatologiche’ che prescindono dal Trascendente appaiono insufficienti già per il fatto di non rispondere alla speranza dell'uomo: il marxismo, anche nella sua versione blochiana, piega il singolo ad una collettività finale, lasciando irrisolta la domanda sul senso della vita di miliardi di esseri umani ‘sacrificati” lungo il cammino[17]; e il liberalismo, alleato del capitalismo, crea prospettive solo per pochi, lasciando la grande massa dell’umanità nella miseria.

Davanti a queste speranze terrene, in grado di accontentare solo alcuni nella storia e nel mondo, il cristianesimo pone questa scomoda ma decisiva domanda: c’è o no una speranza per tutta l'umanità, specialmente per quella immensa fetta di persone che non ha ricevuto amore e pane a sufficienza, è stata calpestata nei suoi diritti fondamentali, ha subìto ingiustamente violenza e abbandono? Esiste o no una giustizia universale? Questa è la scommessa della speranza cristiana. Finché l'uomo ragiona sulla sua singola sorte, può sempre sperare di cavarsela senza troppi danni, di vivere assaporando una sufficiente dose di felicità... ciascuno può dire al singolare, insomma, “io speriamo che me la cavo”. Finché ragiona solo sulla sua sorte l’uomo può in un certo senso anestetizzarsi: ma non può anestetizzare il dolore dell'umanità; non può insinuare alcuna speranza nella sorte di coloro che sono schiacciati da peso di una sofferenza e di una morte assurde ed innocenti. La speranza cristiana è, in ultima analisi, la scommessa che non solo la vita del singolo ma la vita dell'intera umanità ha senso. Se come ho accennato Gesù, a differenza di Giulio Cesare o di Socrate, non è stato un vero e proprio eroe davanti alla propria morte – ha emesso, anzi, “forti grida e lacrime” (Ebr 5,7) – è perché egli doveva fare i conti non solo con la propria sorte, ma con la sorte dell'intera umanità, che si era addossata. Il grido sulla croce “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46) dà voce a tutta l'umanità, che egli in quel momento rappresentava e con la quale era profondamente solidale.

Liberandosi dalle strettoie di un'impostazione troppo individualistica, la teologia contemporanea recepisce la dimensione comunitaria della speranza: “il vangelo non ha pronta alcuna consolazione per il singolo, che non significhi nello stesso tempo una promessa di avvenire per l'umanità nel suo insieme”[18]. Chi vive solidarizzando con le sorti dell'umanità intera, è spinto dall'amore a ricercare una speranza che possa valere per tutta l'umanità: speranza che rimarrà sempre deludente ed insoddisfacente fuori dal mistero pasquale, l'unico in grado di prospettare un riscatto all'ingiustizia ed una valorizzazione completa della vita terrena; l'unico, cioè, in grado di dare senso alla sorte dell'intera umanità.

 

Conclusione

 

Per concludere, si potrebbe dire che la nostra speranza tende specularmente ad appagarsi, alla fine della vita, in quella stessa esperienza che sta all’inizio della vita: l’essere accolti nelle braccia di qualcuno che ci ama. E’ presente nel cristianesimo, a partire dalla teologia del martirio per allargarsi poi alla situazione di tutti, l’idea della morte come ‘nuova nascita’, ‘vera nascita’: il giorno della morte è il dies natalis. E’ una delle espressioni più audaci della speranza cristiana: riempire l’esperienza detestabile e traumatica della morte con la sostanza desiderabile della nascita. Così il cristiano vive come tre nascite: quella naturale, quella battesimale (simbolismo della nascita chiarissimo nel NT) e quella finale della sua vita. Come le prime due sono un ‘morire’ ad un tipo di vita per essere accolti ad un altro tipo di vita, che ha una certa continuità ma una maggiore discontinuità, così la terza. La nascita fisica infatti è un’esperienza di abbandono della vita nel grembo materno, calda e sicura, per essere lanciati nella vita sociale; non a caso il passaggio è fisiologicamente segnato dal pianto: è un trauma, un salto nel vuoto; eppure è necessario perché quell’essere umano riceva e dia il suo contributo. Poi l’esperienza dell’essere accolto, accudito, pulito, sfamato – in una parola dell’essere-amato gratuitamente da qualcuno – ripaga la fatica del nascere, introduce ad una dimensione insperata. La ‘nuova nascita’, il battesimo, rappresenta di nuovo una morte (al peccato, a Satana) e l’abbraccio di una nuova vita attraverso un salto nel vuoto; anche in questo caso il salto avviene “per grazia” – si entra nella Chiesa non sulla base di un concorso o di una selezione morale, ma di una gratuita accoglienza – ed anche allora si scopre una dimensione insperata della vita (come spesso fanno notare coloro che si convertono in età adulta e descrivono il passaggio come salto verso la luce – da una vita in bianco e nero a una vita a colori). L’ultima nascita, quella finale della nostra esistenza, passa pure attraverso una morte: la morte a questa dimensione terrena, la cessazione dei legami nella forma attuale; ed è questo che ci spaventa – giustamente. La speranza cristiana dice che uno ha già compiuto questo salto con successo, attraverso la morte è entrato nel mondo divino con il suo corpo trasfigurato; ci dice che la morte non è semplicemente la raccolta delle sventure e ingiustizie del mondo, ma il passaggio ad una dimensione insperata di pienezza. Anche in questa terza nascita è questione di “grazia”, perché non potremo mai meritare quell’accoglienza amorevole che Cristo prospetta a chi, esplicitamente o implicitamente, si è affidato al Padre nella sua vita terrena.


 

Diocesi di Rimini – 29 settembre 2005

 

Essere Testimoni del Risorto

Pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi

(1 Pt 3,15)

 

(schema della relazione di d. Erio Castellucci)

 

“Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori ”

La condizione preliminare della trasmissione della speranza: coltivarla nel cuore

 

“Pronti sempre a rispondere”

Il primo passo della trasmissione della speranza: la cura della domanda

-           il rischio della facile risposta e il rischio dell’agguato

-           la speranza cristiana come proposta capace di suscitare la domanda

 

“A chiunque”

Le speranze umane di sempre e di oggi

-           la speranza come colonna vertebrale della vita umana

-           Il problema delle méte: necessità di continui ‘progetti’

-           La speranza di sempre: essere felici; superamento dei problemi materiali, della solitudine, della morte.

-           Le speranze di oggi: ridimensionamento della fiducia nel progresso scientifico e culturale; filosofia e teologia della speranza; frantumazione della speranza nella post-modernità

 

“Domandi ragione”

La ragionevolezza della speranza cristiana

-         I tre livelli della testimonianza: l’esempio personale (volontà), l’argomentazione (ragione) e l’offerta di relazione (esperienza).

-         La dannosa identificazione tra fede e sentimento.

-         La ragionevolezza del cristianesimo: opzione per il mistero anziché per l’assurdo. L’obiezione di Feuerbach (meccanismo della ‘proiezione’).

 

“Della speranza che è in voi”

Cristo Risorto, perno della speranza cristiana

-           Il nucleo del primo annuncio cristiano: la risurrezione di Gesù

-           Incarnazione, morte e risurrezione di Cristo come ‘risposta’ alle speranze umane

-           Risurrezione di Gesù e risurrezione della carne: un’unica speranza; la concretezza del ‘corpo’, contro lo spiritualismo e l’individualismo.


 

[1] Comitato Preparatorio del IV Convegno Ecclesiale, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Il testo è facilmente reperibile in Il Regno documenti 13/2005, 338-348.

 

[2] Cf. L. BLAIN, Due filosofie incentrate sulla speranza: quelle di G. Marcel e di E. Bloch, in Concilium 6 (1970) n. 9, 120-133.

[3] Per una presentazione sintetica delle tre prospettive in relazione alla speranza cristiana, cf. G. ANGELINI, Speranza, in G. BARBAGLIO e S. DIANICH edd., Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Alba 1977, 1508-1533; qui 1522-1524.

[4] Per D. BONHÖFFER, come è noto, ‘tappabuchi’ è il Dio della religione; egli, come un deus ex machina, interviene quando è richiesto a risolvere le situazioni impossibili all'uomo. Ma in questo modo, per il teologo tedesco, si lascia a Dio solo lo spazio negativo delle paure e dell'ignoranza (che si assottiglia sempre più con la scienza, fino a rendere questo Dio inutile), mentre il cristianesimo (che per lui è il contrario di una religione) mette Dio al centro della vita; la Chiesa non può occupare la periferia lasciatale libera dal fallimento delle facoltà umane: deve istallarsi nel centro del villaggio (cf. Widerstand und Ergebung, Kaiser, München 1951, 134-135).

[5] E’ fulminante quell’inciso de I demoni, in cui Dostoevskij menziona un certo “maggiore, parente di Virginskij”, che “smetteva perfino di credere in Dio, non appena era passata la notte” (cap. VII, 1: trad. it. di F. Gori, Garzanti, Milano 2000, vol. II, 680).

[6] Opportunamente W. BREUNING segnala un malinteso che ha a che vedere con ciò che stiamo dicendo: “nella storia di Dio con gli uomini, il desiderium umano gioca un ruolo essenziale. Ma il compimento che Dio garantisce si presenta come qualcosa di infinitamente trascendente. E' la critica che si muove a dei progetti umani unilaterali, evoluti esclusivamente dal basso” (Sviluppo sistematico degli enunciati escatologici, in J. FEINER e M. LÖHRER edd., Mysterium Salutis 11, Queriniana, Brescia 1978, 326).

[7] Le confessioni II, 6,13-14; trad. it. di C. CARENA, Città Nuova, Roma 1965 (= NBA 1).

[8] Come scrive J. ALFARO: "la teologia deve cercare di spiegare come la vita cristiana non si sovrapponga artificialmente all'essere dell'uomo, bensì vi si inserisca nel profondo della sua esistenza" (Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, Queriniana, Brescia 1985, 7-8).

[9] J. ALFARO, Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, 15.

[10] E. BRUNNER, L'eternità come futuro e tempo presente, Dehoniane, Bologna 1973, 13.

[11] Per una documentazione ed una puntuale riflessione sul tema, in relazione alla filosofia e alla teologia contemporanena, cf. J. ALFARO, Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, 13-29.

[12] E. HILLESUM,  Diario (1941-1943), trad. it. di C. PASSANTI, Adelphi, Milano 1985, 166.

[13] Cf. M. BLONDEL, L'Action (1893). Essai d'une critique de la vie et d'une science de la pratique, PUF, Paris 1973.

[14] J. ALFARO, Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, 16-17.

[15] Già in Marcel si trovano molte suggestioni in questa direzione: Per Marcel (cf. L. BLAIN, Due filosofie incentrate sulla speranza: quelle di G. Marcel e di E. Bloch, cit., 122-127): “la pienezza umana della speranza si può trovare soltanto là dove si dà quella intercomunione spirituale chiamata amore. ‘Io spero in Te per noi’ è la formula migliore per esprimere la speranza. Quanto più la speranza si avvicina alla carità, tanto più partecipa di quella ‘incondizionata qualità che è proprio il segno della presenza’ e ‘questa presenza incarnata nel noi’, per cui ‘Io spero in Te', in una comunione, cioè, di cui proclamo l’indistruttibilità” (125).

[16] J. RATZINGER, Escatologia: morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1979, 84.

[17] “Nella logica di tali ideologie bisogna dare per scontato il sacrificio di innumerevoli generazioni, in onore di uno stadio finale del quale godrà solo una parte del genere umano. A rigore si potrebbe dire che, al di fuori di questa porzione privilegiata, nessun uomo ha futuro. Più concretamente, le escatologie secolari si dimostrano incapaci di armonizzare gli interessi dell'individuo con quelli della collettività. La domanda sul significato è totalizzante: ha senso l'io singolare, la umanità, il mondo? Hanno senso le generazioni intermedie?” (J. L. RUIZ DE LA PEÑA, L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Borla, Roma 1981, 33).

[18] E. BRUNNER, L'eternità come futuro e tempo presente, 10.