CEI, Conferenza Episcopale Italiana

in collaborazione con Forum delle Associazioni degli studenti universitari

 

"Al centro la persona. Studenti per una nuova qualità dello studio e della ricerca"

Montesilvano (PE) 16-18 marzo 2007

La presenza cattolica nella comunità universitaria, nella riflessione dell'AIDU

 

(Luciano Corradini Università di Roma 3, presidente AIDU, Associazione italiana docenti universitari)

 

Nella comunità universitaria i docenti  e gli studenti sono persone, cittadini e lavoratori, che attraverso lo studio, l'insegnamento e la ricerca devono "produrre" una formazione capace di condurre i giovani a prepararsi per un'attività professionale successiva alla vita universitaria.

Lo statuto dell'Università di Roma Tre prevede che "Ogni membro della comunità universitaria assume responsabilità verso gli altri, secondo le proprie funzioni, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi comuni" (art 2).

La presa di coscienza di questa complessa realtà  e della finalizzazione formativa del lavoro universitario nella società odierna  è facilitata dallo sviluppo di una spiritualità professionale, che si declina diversamente, ma che dovrebbe essere in qualche modo alimentata, sia nel docente, sia nello studente.

 

Pluralismo culturale e educazione, nella scuola e nell'università

 

L’analisi sociologica e l'analisi filosofica  condotte da un certo numero di autori coincidono  nel presentare la fine della modernità come la fine di un sogno o di una speranza e nel trarne conseguenze pessimistiche circa la possibilità di comprendere  e di trasformare questo mondo in termini razionali. Il postmoderno consisterebbe in sostanza nel negare la capacità umana di chiarificazione della realtà, così come l'avevano difesa gli illuministi, e nel disconoscere la sussistenza di valori umani capaci di legittimare qualsiasi ordinamento della società, conservatore o rivoluzionario che sia.

 

Jean Francois Lyotard fu tra i primi a trarre la logica conseguenza di queste premesse sul terreno educativo nell'epoca post moderna, sostenendo che "l'antico principio secondo il quale l'acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione  dello spirito e anche dalla personalità, cade e cadrà sempre più in disuso". Non essendoci valori da interiorizzare, prospettive da privilegiare, ciascuno deve "navigare a vista", affidandosi al mero sapere scientifico e alle prospettive del successo tecnologico, che però sono anche aperte ai fallimenti che si sono fin qui sperimentati.

La scuola e l'università vengono perciò esautorate, nel senso che vengono declassate a luoghi di memoria, non a luoghi elaborazione di scelte impegnative per la società futura.

 

Non entro nel merito di questa problematica, se non per ricordare che la normativa della scuola europea non si muove su questa linea, ma ribadisce talora con più energia del passato, anche se con meno fiducia, la necessità di prendere posizione in termini di valore di fronte alla vita, alla cultura, all’educazione. La presenza di giovani di diverse culture nelle nostre scuole e università pone problemi di elaborazione di visioni della vita almeno compatibili fra loro, se non si vuole assistere impassibili al collasso della civile convivenza e al conflitto, dovuto spesso a superficialità ed equivoci.

 

Educare insegnare e formare sono termini sui quali in sede pedagogica si è lungamente discusso, per la carica valoriale e ideologica di cui essi sono portatori. La letteratura dei “rapporti internazionali” dell’UNESCO, del Consiglio d’Europa, dell’Unione europea, anche quando si richiama ai valori del mercato e della competizione, intesi come emergenze del nostro tempo, nel contesto della globalizzazione, fa perno sulla necessità di educare ai diritti umani e alla pace.

La recente normativa italiana sulla scuola mostra di voler superare le polemiche fra istruzione e educazione, là dove afferma che “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà d’insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione, mirati allo sviluppo della persona umana…” (dpr 8.3.1999, n275, art.1)

Un’altra norma afferma: “La scuola è luogo di formazione e di educazione… E’ una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni”(dpr 24.6.1998, n. 249, art. 1)

 

E’ possibile attribuire anche all’università questa concezione della scuola? E’ possibile impiegare con qualche verità i termini educazione e comunità anche all’istituzione universitaria? O le trasformazioni in corso “producono” istituzioni, docenti e studenti del tutto diversi da quelli che abbiamo conosciuto e che in certa misura siamo stati fino agli anni ’90? Che cosa si perde e che cosa si guadagna col cambiamento? Si può parlare ancora di maestri e di discepoli?

Autonomia e finalità dell’istituzione universitaria

 

Di recente l’esplosione dei corsi di laurea, che intendono prefigurare le più diverse e frammentate professioni o attività lavorative, affidano le cattedre alle celebrità del mondo dello spettacolo e delle attività produttive, senza che queste dispongano di uno specifico tirocinio formativo alla professione del docente universitario. Mentre coloro che si sentono motivati a vivere l’università come “professore pieno” trovano talora insegnamenti precari, moduli, gruppetti di studenti o platee numerose da affrontarsi quasi esclusivamente in sede di esame.

 

Qualcuno si scandalizza, altri vi scorgono i segni dei tempi nuovi e lo sforzo di legittimarsi attraverso la ricerca di valori, di saperi di strumenti organizzativi nuovi. E’ possibile che l’università si apra al mercato di nuovi modelli di vita e di nuove professioni senza compromettere il suo codice genetico? E’ possibile che, sulla base di questo codice, la vecchia istituzione universitaria riesca a sopravvivere e a dare frutti di maturazione umana e non solo di addestramento professionale?  Se si cederà alla spinta ad organizzare curricoli “mordi e fuggi”, sulla base della preminenza accordata ad una finalizzazione immediata al lavoro (che tra l’altro sarà per molti un miraggio, non consentendo l’apparato produttivo spazio per tutti), se si porrà l’attenzione sulle tecnologie d’insegnamento, a scapito della ricerca culturale e didattica e della qualità formativa delle relazioni fra docenti e studenti, quello che si perde rischia d’essere più importante di quello che si guadagna.

 

L’esplicitazione dei fini dell’università, anche nelle norme scritte, non ha perciò carattere puramente auspicativo o retorico. I fini sono infatti grandi organizzatori culturali e istituzionali, dei quali la società e in particolare l’università hanno bisogno, per non smarrire il senso e la prospettiva del proprio sviluppo, come avverrebbe se si affidassero semplicemente alla dinamica del mercato, o se, all’opposto, vivessero come prigioniere del passato. Un’architettura di sistema non può prescindere da finalità ampie e chiare, pena la caduta in un funzionalismo che trasforma surrettiziamente i fatti in valori e che riduce questi valori ad un orizzonte inadeguato a produrre lo sviluppo di una società civile, pacifica, interconnessa a livello mondiale.

 

Il Rapporto all’UNESCO scritto dalla Commissione Delors (1996) afferma in proposito: “Oltre a preparare un gran numero di giovani, sia alla ricerca, sia a lavori qualificati, l’università deve rimanere la fonte capace di soddisfare la sete del sapere di coloro che, sempre più numerosi, trovano nella propria curiosità di spirito il mezzo per dare un senso alla propria vita. La cultura va intesa qui nel suo senso più ampio, che va dalle matematiche alla poesia, attraverso tutti i campi dell’intelligenza e dell’immaginazione”. L’università dev’essere perciò “aperta” e “offrire la possibilità d’apprendere a distanza nello spazio e in momenti vari nel tempo”. Il Rapporto riconosce inoltre che spetta all’università “un compito fondamentale, anzi un suo obbligo morale: quello di partecipare ai grandi dibattiti riguardanti l’orientamento e il futuro della società”. Non si tratta qui di una concezione asettica di tipo scientifico e tecnologico, ma di un impegno etico che ha bisogno, per crescere, di discipline non esclusivamente specialistiche e di un ambiente culturale di larghe vedute.

La legge 382 del 1980 dice che l’università è la sede dell’elaborazione e della trasmissione critica del sapere. La ricerca e l’insegnamento, che la normativa attuale riconosce proprie dell’istituzione universitaria, non possono non avere un carattere essenzialmente formativo. Di questa formazione si sottolineano, nei tempi a noi più vicini, giustamente preoccupati della qualità delle competenze, anche i risvolti relativi alla professionalizzazione degli studenti, a livello di laurea e di specializzazione, sia disciplinare, sia professionale. L'università però non dev’essere solo sede di formazione professionale, intesa per di più in senso riduttivo e limitato ai soli aspetti tecnici.

L'università deve coltivare, oltre che il futuro professionista, anche l'uomo in quanto persona: una persona che sappia rendere conto a se stessa del valore e del senso di quello che studia, in un contesto di persone; e deve coltivare l'uomo in quanto cittadino: un cittadino che sappia difendere i suoi diritti, esercitare i suoi doveri, rendere conto agli altri dei suoi comportamenti e concorrere a produrre le condizioni che rendano più vivibile e più governabile la società civile, proprio a partire da quella microsocietà che è l'università stessa.

E’ chiaro allora che l'università rivendica legittimamente la sua autonomia didattica, di ricerca, di regolamentazione statutaria, di gestione organizzativa, per rendere un qualificato servizio ai suoi diretti fruitori e alla società civile, attraverso le funzioni specifiche della ricerca e dell'insegnamento, in quanto concorre alla formazione, al più alto livello istituzionale, di persone, di cittadini e di professionisti. Il sapere si ricerca, si consegna e si promuove nella scuola e nell’università, con diversità di livelli e di metodi, nella prospettiva del saper essere, del saper interagire e del saper fare.

 

Questo corrisponde al codice genetico dell’università medievale, che vedeva l’intellettuale non come un aristocratico del sapere, ma come un artigiano aperto ai problemi di tutti, teso a coniugare per quanto possibile la ricerca della verità con la produzione di un sapere utile a tutta la società.

In occasione del novecentesimo anniversario di fondazione dell'Università di Bologna, il 18 settembre del 1988, i Rettori di 372 Università di tutto il mondo hanno firmato una Magna Charta in cui si afferma, fra l'altro: “L'Università è un'istituzione che produce e trasmette criticamente la cultura, mediante la ricerca e l'insegnamento".

 

Premessa: cattolici anonimi, espliciti, isolati, variamente associati

 

Si è parlato di spiritualità professionale, a proposito del lavoro universitario, sul versante dei docenti, non meno che di quello degli studenti. Ciò vale in particolare per chi vive l'esperienza della fede cristiana e dell'appartenenza alla Chiesa

Per un docente l’essere battezzato, l’avere fede in Cristo e nella Chiesa, il frequentare i sacramenti, il partecipare ad iniziative pubbliche caratterizzate in senso cattolico,  l’appartenere a qualche associazione cattolica e l’assumere in essa ruoli visibili, sono altrettanti livelli o ambiti diversi, con cui si identifica o viene identificati dagli altri, in un clima che dovrebbe essere per tutti di rispetto e di correttezza formale e sostanziale.

 

Qualche cattolico ritiene sufficiente dare testimonianza di onestà professionale, qualche altro si spinge a dichiarare la propria fede, opportunamente o importunamente, qualificando in un modo o nell’altro la sua attività e il rapporto tra fede e professione. L’appartenenza a istituzioni o movimenti o associazioni o gruppi ecclesiali determinati (il che avviene in forme molteplici), fornisce una particolare caratterizzazione al docente cattolico e lo rende più o meno disponibile a collaborare alla “pastorale universitaria” promossa dalla Gerarchia.

 

Chi scrive (e parla) è stato invitato, anni fa, a far parte della Consulta per la pastorale universitaria promossa dalla CEI. Si trattava in sostanza di aiutare i vescovi ad individuare temi e modi per attuare nel mondo universitario una presenza e una proposta di evangelizzazione, che fossero aggiornate, rispettose, efficaci. Era facile pensare, a questo scopo, più al mondo degli studenti che a quello dei docenti.

 

Ma anche i docenti, se non si teme di lederne la maestà, sono destinatari di attività pastorale; di più, ne sono o ne dovrebbero essere anche soggetti. Il Concilio lo ha detto in molti modi e a voce alta, a proposito dei laici e del loro impegno nelle specifiche realtà terrene. E tuttavia nella Consulta citata si è preso atto che, a differenza di quello che accade da un secolo nel mondo studentesco, con la presenza della FUCI, per i docenti universitari cattolici non esisteva uno strumento associativo specifico. Dopo un paio d’anni di discussioni, decidemmo che era opportuno costituirlo, non essendovi nulla di uguale nel “mercato” associativo.

 

Vale la pena, a distanza di alcuni anni da quella presa di coscienza e dalla conseguente decisione di dar vita ad un’associazione di questo tipo, di riconsiderare le ragioni con cui si lanciò l’AIDU, per cogliere, sulla base non solo di considerazioni teoriche, ma di una prima esperienza fattuale, i valori, i limiti e le potenzialità di quella iniziativa. Rileggo perciò, con qualche commento attualizzante, il documento con cui il gruppo promotore, poi consiglio direttivo, si presentò alla LUMSA, il 16 ottobre 1999, per la sua assemblea di fondazione.

 

Ragioni dell’AIDU, associazione italiana di docenti universitari d’ispirazione cristiana *

 

Premessa. L’università resta, nonostante i suoi limiti e le sue carenze, una delle istituzioni fondamentali di cui dispone l’Italia per conservare e rinnovare il suo patrimonio culturale scientifico e tecnologico e per concorrere, secondo il disegno della Costituzione, a formare persone, cittadini e lavoratori consapevoli e provveduti, nel contesto europeo e mondiale che si va delineando alle soglie del terzo millennio dell’era cristiana.

 

° Le trasformazioni in corso di tutte le istituzioni pubbliche, e in particolare della scuola e dell’università, costituiscono un’occasione per esaltare la funzione sociale e la responsabilità morale e civile del docente universitario, ma possono anche comprometterne alcuni valori essenziali di libertà e di solidarietà.

 

° I nuovi compiti connessi con un’autonomia difficile da disegnare e da realizzare possono sviluppare preziose competenze, ma anche provocare incertezza, disorientamento e fuga dalle responsabilità politiche e sociali implicite nel nuovo modo di vivere e di governare l’università.

 

° Alla legittima richiesta di produttività del sistema universitario si può rispondere elaborando una nuova cultura professionale, ma anche in modo inadeguato o addirittura perverso, con la rimozione del problema, con l’abbassamento della qualità formativa o con l’eccessiva burocratizzazione delle procedure amministrative e didattiche.

 

° La modernizzazione può essere l’occasione per liberarsi da residui privilegi feudali, in nome dei fini-valori che appartengono al mondo della ricerca e della formazione, o può ridursi a interventi ispirati alla mera razionalizzazione degli apparati e dei compiti, in funzione delle sole esigenze, a volte miopi, di mercato.

 

° Fra i nuovi compiti, uno riguarda la formazione dei docenti di scuole primarie e secondarie in sede universitaria (negli appositi corso di laurea per docenti di scuola primaria e scuola di specializzazione per docenti di scuola secondaria), in attuazione della legge 341/1990. Qualunque materia uno insegni all’università, non dovrà pensare solo a “produrre” studenti preparati, ma anche futuri docenti. E si troverà a dover interagire con colleghi e con docenti primari e secondari anche assegnati all’università, nella prospettiva delle nuove professionalità educative da promuovere.

 

° La ridefinizione ora in corso del ruolo del docente,  sul piano sociale e giuridico, con la perdita di alcune certezze e con la conquista di nuove modalità di organizzazione della ricerca e dell’insegnamento, richiede un impegno prolungato e il più possibile condiviso di riflessione culturale e di elaborazione deontologica della professione docente.

 

° Allargando lo sguardo alla comprensione del nostro tempo e dei valori/disvalori che lo caratterizzano, troviamo macerie di muri caduti che riguardano non solo l’ideologia e la politica, ma più profondamente l’identità dell’uomo e della donna, della famiglia e della società umana: in sintesi l’identità di ciò che siamo e che dobbiamo essere, per accettare la vita, riconoscerne i limiti, rispettare e promuovere diritti e pace. Fare cultura, scienza, tecnica, politica, formazione, implica oggi difficoltà e responsabilità inedite.

 

° I credenti impegnati nell’esercizio di questa professione sono interpellati in modo particolare dalle trasformazioni in corso,  sul  piano  culturale  e  su quello socio-istituzionale.  Si  tratta  di  prendere coscienza da un lato della speciale vocazione dei laici al servizio alla comunità umana mediante l’esercizio del proprio ufficio, vissuto con competenza e con spirito di carità, dall’altro della stima da cui i credenti, al di là di pregiudizi, cattivi ricordi e sospetti, sono in genere circondati, quando si può apprezzarne la lealtà e la dedizione alla verità, alle persone e alla cosa pubblica.

 

° La proposta di costituire un’associazione di docenti universitari d’ispirazione cristiana, in tale contesto, è frutto di una lettura della situazione universitaria che vuol essere attenta a cogliere, nel modo più efficace possibile, i segni dei tempi e a potenziare le risorse di persone di diversa età, sensibilità e competenza, in vista di un servizio il più possibile qualificato all’istituzione universitaria e agli studenti. Ciò implica anche vigilanza di fronte a possibili pericoli derivanti da forze ispirate a interessi che nulla hanno a che fare con i valori da cui ci si sente convocati.

 

° Si ha grande stima e rispetto per i gruppi di docenti cattolici già costituiti in diverse sedi universitarie, e si pensa che la forma associativa di carattere nazionale non limiti né ostacoli alcuna forza viva o forma di aggregazione, ma dia a tutti uno spazio più vasto di incontro, di espressione, di rappresentanza.

 

° Associarsi come cristiani, alla luce del dono sempre inquietante della fede, ossia costruire, come oggi si dice, una rete di persone animate da reciproca stima, amicizia e solidarietà, per aiutarsi a vicenda nell’esercizio dei propri compiti professionali di docenti, non significa separarsi né sovrapporsi, né tanto meno  contrapporsi nei riguardi di altre reti o associazioni o forme d’impegno, nel settore ecclesiale, in quello professionale o in quello civile e politico. L’incontro fra docenti delle università statali e libere e delle università pontificie costituisce un arricchimento culturale e spirituale che potrà dare nel tempo i suoi frutti.

 

° Si è consapevoli che un’associazione di questo tipo non nasce e non cresce solo in virtù motivazioni di ordine generale, per quanto profonde e nobili, ma dipende da personali volontà di superare dubbi e incertezze e di aggregarsi sulla base di un minimo di fiducia preventiva, di disponibilità a rischiarsi, di capacità di prefigurare il concreto “valore aggiunto” di carattere spirituale, amicale, professionale ecclesiale e civile che possa venirne.

 

° Il bene che ne verrà sarà comune, anche se diverso sarà l’impegno dei singoli nel legittimo pluralismo associativo, in una società complessa che implica molte  appartenenze, divisione di compiti e coordinamento. Non si tratta di un impegno direttamente sindacale o politico, pur essendo questi ambiti di grande rilievo per la professione.

 

° Si è anche consapevoli che tale associazione, se riuscirà a crescere come un granello di senape, sarà un dono duraturo alla Chiesa, impegnata, nel passaggio giubilare al nuovo Millennio, a rendersi più trasparente e più disponibile al servizio disinteressato, in diversi modi e con diversi carismi, agli uomini e alle donne del nostro tempo. Si può parlare, nei rapporti fra le iniziative pastorali della Gerarchia e fra quelle dei laici associati in quanto cattolici dalla Gerarchia stessa riconosciuti, di cooperazione leale, volta a risparmiare energie e a moltiplicare il servizio: in certo senso di doppia legittimazione, dall’alto e dal basso.

 

° L’analogia con quanto si verifica da oltre cinquant’anni in associazioni professionali di docenti cattolici della scuola primaria e secondaria (AIMC e UCIIM), espressione di autonomia laicale e d’impegno ecclesiale e civile, consente di pensare anche per il mondo universitario alla possibilità di una rete associativa basata sulla sintesi originaria di fede e professione, e aperta a quell’articolazione di diverse presenze, di colleganze e di collaborazioni che si sono vissute dai docenti di altre associazioni professionali cattoliche, senza cadute in logiche integriste, di lobbismo, di corporativismo o di collateralismo mascherato con questa o quella forza politica.

 

° La specificità di queste associazioni sta infatti in quella sintesi di motivi teologici e di motivi etico-sociali che si chiama spiritualità professionale del docente: una spiritualità incarnata, ossia attenta a pensare e a vivere la docenza, l’università e l’intera società umana alla luce della proposta di salvezza che viene dal Vangelo.

 

* Edoardo Teodoro Brioschi (economia e tecnica della comunicazione aziendale, Milano Cattolica), Sandra Chistolini (educazione comparata, Perugia), Roberto Cipriani (sociologia generale, Roma Tre), Luciano Corradini (pedagogia generale, Roma Tre), Federico D’Agostino (sociologia generale, Università del Sannio), Giuseppe Dalla Torre (diritto ecclesiastico, rettore Lumsa) Giovanni Di Giandomenico (istituzioni di diritto privato, Università del Molise), Vincenzo Marigliano (gerontologia e geriatria, dir. Clinica medica I, Roma La Sapienza), Carlo Nanni (filosofia dell’educazione, decano facoltà UPS), Anna Pasquazi (storia della lingua latina, Roma Tor Vergata), Gian Cesare Romagnoli (politica economica, Roma Tre).    ROMA, 1° agosto 1999

 

Legittimazione teologica e sociologica dell’associazionismo laicale in ambito universitario

 

Dopo la rilettura di questo testo programmatico, riprendo il discorso, integrandolo con alcune citazioni puntuali dal recente Compendio della dottrina sociale della Chiesa, LEV, Città del Vaticano, 2004: 

”I fedeli laici sono chiamati a coltivare un’autentica spiritualità laicale, che li rigeneri come uomini e donne nuovi, immersi nel mistero di Dio e inseriti nella società, santi e santificatori…. E’ una spiritualità che rifugge sia lo spiritualismo intimista, sia l’attivismo sociale e sa esprimersi in una sintesi vitale che conferisce unità, significato e speranza all’esistenza, per tante e varie ragioni contraddittoria e frammentata. Animati da tale spiritualità, i fedeli laici possono contribuire ‘come fermento alla santificazione del mondo quasi dall’interno, adempiendo i compiti loro propri, guidati dallo spirito evangelico, e così…manifestare Cristo agli altri prima di tutto con la testimonianza della propria vita’ (LG, 31)”. (N.545)

 

“La sintesi tra fede e vita richiede un cammino scandito con sapienza dagli elementi qualificanti dell’itinerario cristiano: il riferimento alla Parola di Dio; la celebrazione liturgica del mistero cristiano; la preghiera personale; l’esperienza ecclesiale autentica, arricchita dal particolare servizio formativo di sagge guide spirituali; l’esercizio delle virtù sociali e il perseverante impegno di formazione culturale e professionale” (n.546)…Vale in ogni caso la distinzione “tra quello che i fedeli operano a nome proprio, sia da soli sia associati, come cittadini guidati dalla coscienza cristiana, e quello che compiono a nome della Chiesa assieme ai loro pastori” (GS, 76)” (n 550).

 

“Anche le associazioni di categoria, che uniscono gli aderenti in nome della vocazione e della missione cristiana all’interno di un determinato ambiente professionale o culturale, possono svolgere un prezioso lavoro di maturazione cristiana.”(n.550) E qui si citano, come esempio le associazioni di medici, ma anche “di insegnanti cattolici, di giuristi, di imprenditori, di lavoratori, ma anche di sportivi ed ecologisti…E’ in tale contesto che la dottrina sociale rivela la sua efficacia formativa nei confronti della coscienza di ciascuna persona e della cultura di un Paese” (n.550)

 

Si potrebbe continuare con la grande sinfonia scritta in proposito dall’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II , la Chistifideles Laici ( 1988), da cui tolgo solo un paio di citazioni.

 

Oltre a lucide riflessioni teologiche, circa il “diritto di aggregazione proprio dei fedeli laici”, che “non deriva da una specie di ‘concessione’ dell’autorità, ma che scaturisce dal Battesimo”, si formula questa realistica indicazione sociologica:“In realtà l’incidenza ‘culturale’, sorgente e stimolo ma anche frutto e segno di ogni altra trasformazione dell’ambiente e della società, può realizzarsi solo con l’opera non tanto dei singoli quanto di un ‘soggetto sociale’, ossia di un gruppo, di una comunità, di un’associazione, di un movimento. Ciò è particolarmente vero  nel contesto della società pluralistica e frantumata - com’è quella attuale in tante parti del mondo - e di fronte a problemi divenuti enormemente complessi e difficili. D’altra parte, soprattutto in un mondo secolarizzato, le varie forme aggregative possono rappresentare per tanti un aiuto prezioso per una vita cristiana coerente alle esigenze del Vangelo e per un impegno missionario e apostolico”. (CF, 29)

 

L’AIDU è stata riconosciuta e incoraggiata con lettere ufficiali dall’allora presidente della Congregazione per l’istruzione cattolica, card. Pio Laghi, dall'allora presidente della CEI Card. Camillo Ruini e dal segretario generale della CEI medesima, mons. Giuseppe Betori.

La generale e la specifica legittimazione ecclesiale dunque non mancano, ma la “benzina” necessaria a far marciare le macchine associative non viene solo dall’alto. Qui il discorso torna ad essere sociologico, psicologico, giuridico, per poter essere nuovamente, in senso effettivo e non solo ipotetico, pastorale.

 

Benedetto XVI nella sua messa inaugurale in Piazza S. Pietro ha commentato con grande finezza le metafore istitutive della pastorale, leggendole non in senso predatorio, ma nel senso della carità e del servizio: il mandato di pascere agnelli e pecore e di pescare uomini, non significa autorizzazione a catturare proseliti, ma a mandato ad annunciare, a proporre, a offrire una comunione che salva, rispettando la libertà.

 

Io aggiungerei che il pastore non svolge da solo la sua funzione, a meno che non abbia solo un paio di pecore da curare; e che anche a pescare con le reti, come facevano Pietro e soci, non si può far tutto da soli, a meno che uno non se ne stia con la lenza ad aspettare sotto un ponte che i pesci abbocchino.

Sappiamo anzi da Gesù che è possibile, in certo senso, farsi pescare da Lui, a condizione di dare corpo all’ipotesi da Lui formulata: “se due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.

Questo secondo obiettivo, quello di essere insieme nel Suo nome (citato nello statuto dell’AIDU, non nella sigla), per una presenza di servizio nell’università, l’abbiamo già raggiunto: dal notaio eravamo in 11 e nell’assemblea di fondazione un centinaio.

Più difficile è organizzare una battuta di pesca con reti adeguate alla bisogna, nel mare aperto delle diverse sedi universitarie. Se già pescare uomini è difficile, pescare professori universitari è difficilissimo; ma non impossibile.

 

Oltre al gruppo romano, si sono costituite la sezione siciliana, a Palermo, con tanto di Aula magna, di saluto del Rettore e di pasticcini; la sezione bolognese, con molta simpatia, in una sede appropriata e con panini non indegni della città emiliana, culla dell’università italiana, nota per la sapienza e per la cucina; la sezione friulana di Udine, in occasione di un convegno sulla compatibilità in educazione, dove si è dimostrato, anche con contributi internazionali, che fare il docente cattolico iscritto all’AIDU è compatibile con i propri doveri e con la propria reputazione accademica; la sezione di Potenza.

 

Da un certo movimento telefonico preliminare, pare che anche qui a Pescara si costituisca una sezione, nucleo di possibili sviluppi nella costa adriatica.

 

Certo che, se si vuol fare una battuta di pesca proficua, non bisogna aspettare che arrivi Gesù, dopo una notte infruttuosa, a ordinarci di gettare di nuovo le reti. Se fra cattolici presenti in università, sacerdoti e laici, docenti e studenti, ci si dà una voce, la pesca può dare i suoi frutti, e produrre, meraviglia faunistica, dei pesci pescatori, che invece che mangiare i colleghi si mettono al loro servizio.

 

La conclusione di questo discorso, per esemplificare con riferimento a uno solo dei punti della complessa vita universitaria, riguarda i docenti tutti, nell’ambito dei quali i cattolici hanno o dovrebbero avere particolare sensibilità e ruolo promozionale. E’ il capitolo della deontologia, che non va inteso come fatto tecnico, da affidarsi solo ad una carta da appendere al muro, come fa qualche medico col Giuramento di Ippocrate.

 

Conclusione: prospettive di promozione dell’AIDU

 

Concludo con  una considerazione relativa ad una possibile intensificazione della collaborazione fra CEI e AIDU. E' noto che la FUCI nacque nel lontano 1896, collegando gruppi di studenti cattolici presenti nei vari atenei; e che il Movimento laureati di Azione cattolica "promosse" le "unioni professionali cattoliche", a partire dal 1944. La prima fu l'UCIIM, Uione cattolica italiana insegnanti medi, per iniziativa dell'allora sostituto alla Segreteria di Stato mons. Montini.

In un primo tempo l’autonomia laicale delle unioni professionali fu faticosamente conquistata, con un dialogo fitto sia con le Autorità vaticane, sia con i vescovi da cui dipendeva l'ACI. Poi venne il Concilio  e il clima divenne più sereno, nel riconoscimento mutuo di “piena ecclesialità e di piena laicità” delle unioni professionali. Oggi tutto mi sentirei di dire dell’UCIIM, meno che le sia stata negata autonomia da parte della Gerarchia. Anzi, vediamo la CEI come un punto di riferimento alto di legittimazione e di aiuto, soprattutto attraverso l’UNESU, che svolge un ruolo discreto ma efficace di promozione e di coordinamento.

 

Perché ricordo questi “incunabula” delle unioni professionali? Perché l’AIDU, nata nel 1999 in vista del grande Giubileo, più di cinquant’anni dopo l’UCIIM, è ora la più piccola e più giovane delle unioni professionali. L’ho paragonata ad una piantina, che ha bisogno del pastorale per crescere, e per non fare la fine degli alberi di Natale e dei presepi che, a metà o alla fine di gennaio, vanno al fuoco o in cantina.

 

Al di là della metafora natalizia, la formula collaudata della “promozione” dell’AIDU da parte della CEI, se adottata convintamene, potrebbe concretizzarsi in alcune operazioni di cooperazione, che sono oggetto di dialogo, in questo passaggio della presidenza della CEI dal card Ruini all'arcivescovo Bagnasco.

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Una maggior integrazione fra Ufficio della CEI e strutture associative potrebbe consentire per esempio di programmare in maniera integrata le diverse iniziative, a partire dal congresso nazionale, che potrebbe celebrarsi a ridosso del convegno della Pastorale, previsto ogni tre anni, per evitare doppioni di trasferte e di relatori e per fare economie di scala. Di fatto, non abbiamo finora organizzato congressi nazionali dell’AIDU, perché non abbiamo raggiunto standard di quantità tali da giustificare l’adempimento statutario.

Discorsi interessanti si vanno conducendo anche a proposito della sede e della rete organizzativa, a partire dalla gestione del sito (www.aiduassociazione.it), già “lincato” con i siti cattolici.       Luciano Corradini