Cari soci e amici dell'AIDU,

 

dedico le ultime ore del 2006 a riprendere i contatti con voi, interrotti in occasione del XXII Congresso nazionale dell'UCIIM, che mi ha notevolmente assorbito nei mesi scorsi. Ho concluso in quella sede il mio decennale servizio di presidente e ne sono uscito "emerito": aggettivo solenne, che nelle intenzioni dei colleghi non vorrebbe servire a facilitare un insulto, ma a mantenere in qualche modo in servizio l'ex, di cui si ritiene opportuno non disfarsi precipitosamente.

 

La circostanza mi consente di ridurre il conflitto interiore, dovuto non già all'appartenenza alle due associazioni di docenti, che non implica di per sé alcuna incompatibilità, ma alla difficoltà di trovare il tempo necessario per esercitare in entrambe qualche responsabilità.

 

D'ora in poi, riducendo in qualche modo i tempi da dedicare all'UCIIM, potrò fare qualcosa di più per l'AIDU. Rinvio alla metà del mese prossimo la convocazione di un consiglio direttivo, dopo il colloquio che spero di avere con mons. Stenco e con mons. Betori, in occasione della prossima riunione della Consulta di pastorale universitaria presso la CEI.

 

Intanto, per colmare in qualche modo il vuoto dovuto al mancato numero autunnale di AiduNotizie telematico, mi permetto di allegare la relazione che ho fatto nel citato congresso. Non è naturalmente obbligatorio leggerla. Mi parrebbe però bello non solo connettere le nostre rispettive memorie elettroniche, ma anche sintonizzare in qualche modo i nostri spiriti sui due temi affrontati in quella sede: il dopo Verona per l'aspetto ecclesiale e il dopo elezioni per l'aspetto civile.

 

Il 14 dicembre ho partecipato alla messa natalizia celebrata dal Card. Ruini e al successivo incontro col Papa Benedetto XVI, pregando per la nostra Associazione.

 

Vi ringrazio per la pazienza e per l'amicizia e vi lascio, se e quando sarà possibile, alla lettura del testo allegato.  Con molti auguri per un buon 2007.                                     Luciano Corradini

 

 

 

 

 

 

 

XXII CONGRESSO NAZIONALE

«EDUCARE NELLA SCUOLA:

NUOVI SCENARI, NUOVE RESPONSABILITA’»

Roma, 30 novembre – 3 dicembre 2006

 

Relazione del presidente nazionale prof. Luciano Corradini

Educare e associarsi, con impegno e speranza

Premessa

 

Con questa relazione al XXII congresso nazionale dell'UCIIM  presento un volume della collana UCIIM-AIMC Armando, che ha lo stesso titolo del tema congressuale, e che offre alla consultazione dei volenterosi, con l'aiuto di un indice analitico, gli editoriali della rivista La Scuola e l’Uomo, scritti mensilmente negli anni dal marzo-aprile 1997 all'ottobre 2006, e le due relazioni ai congressi precedenti, del 2000 e del 2004. Il tema che mi ritaglio per questa relazione è più circoscritto e riguarda per così dire la riflessione morale che consegno all'UCIIM dopo quarant'anni di consiglio centrale e quasi dieci di presidenza nazionale. Questo mi libera dalla tentazione di dar conto analiticamente dei temi affrontati, delle iniziative  e delle posizioni assunte dall'UCIIM negli anni della mia presidenza. Non mi libera invece dalla gioia di ringraziare tutte le autorità che hanno generosamente accettato il nostro invito di partecipazione a questo appuntamento, con la loro presenza o con loro messaggi, e tutti voi amici e colleghi, delegati e uditori, che partecipate  a questo congresso, importante per il futuro della nostra associazione.

 

Emblemi che fanno da sfondo alla riflessione di questo congresso sono, nel volantino e nel manifesto che presenta il programma, il colonnato di San Pietro e il Quirinale. Richiamano due mondi istituzionali, espressivi di due mondi vitali, di cui ci sentiamo parte a pieno titolo, come cristiani e come cittadini italiani ed europei. I due titolari delle somme istituzioni, papa Benedetto e il presidente Napolitano, hanno sostituito, nel biennio a cui particolarmente si riferisce questa relazione congressuale, papa Woityla e il presidente Ciampi, i cui ritratti, circondati da giovani, festanti, ci hanno fatto compagnia nel XX congresso, nel dicembre del 2000.

 

Anche quest'anno abbiamo negli occhi due immagini festose: il Papa nello stadio di Verona, in occasione del IV Convegno ecclesiale nazionale, e il presidente Napolitano, circondato da studenti e docenti nel cortile del Quirinale trasformato in un’aula, a tratti allegra, a tratti solenne, in occasione dell'inaugurazione dell'anno scolastico col ministro Fioroni. Più recentemente, il 20 novembre, il Presidente ha fatto la sua prima visita al Papa: i due ottantenni si sono incontrati fornendo un convincente esempio di garbo signorile, di intelligenza politica e di correttezza istituzionale: ma ancor più di comune passione per il bene comune del nostro Paese, a cui hanno dedicato, per vie diverse, le loro personali biografie. Oggi il Papa è in Turchia, Napolitano nella sua Napoli:impegnati entrambi a ricucire tessuti strappati da profonde fenditure storiche.

 

1. Dopo Verona: l'UCIIM nella Chiesa

 

La certezza d’essere tutti insieme “popolo di Dio”

 

Comincio da Verona. E’ la categoria del dono quella che mi viene in mente per archiviare nella memoria la folla di volti, discorsi, colloqui, idee, sentimenti, emozioni, immagini, parole, che hanno caratterizzato le giornate di Verona, dal 16 al 20 ottobre. La foto gigantesca del nostro Nosengo sorridente dall’alto dell’arena di Verona e nel viale della Fiera che portava all’aula magna, dove in 2700 delegati (noi ucimini, presenti a diverso titolo, eravamo almeno una dozzina) abbiamo pregato, parlato, ascoltato, applaudito persone autorevoli e preparate, a partire dal papa Benedetto XVI, quella foto, dicevo, rappresenta visivamente questo dono festoso che ci siamo scambiati: il dono dei vescovi piemontesi, che hanno segnalato all’intera nazione il nostro “Grande capo“ come laico esemplare, e il dono della sua e nostra UCIIM, che ha dato il suo contributo a questa sinfonia di “pietre vive”, legate fra loro dal cemento della fede, della speranza della carità.

 

Sul pennone più alto del maxiconvegno, la CEI aveva issato la virtù cardinale della speranza (“Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”): non solo perché il nostro mondo sembra percorso dal vento gelido della disperazione, per la fame, le malattie, le guerre, l’odio, l’idolatria di un benessere non condiviso, la violenza e le risse di chi non riesce a trovare la via della concordia e della ragione, ma perché il mondo della Chiesa italiana, con tutti i suoi limiti e con tutte le sue carenze, ci è apparso come un mondo vitale, come una rete di iniziative e di relazioni capaci di immettere nella società italiana ed europea semi di vita, di amicizia, di coraggio. Si è trattato di un’esperienza di universalità, di cattolicità, di italianità, oltre gli steccati che qua e là si tenta di far risorgere, nel mondo e nel nostro Paese.

I documenti finali dei gruppi in cui abbiamo intensamente lavorato sono sobri e significativi, alcuni molto belli: tutti fruibili come trasversali alla vita civile, cristiana, familiare, sociale, professionale, politica.

 

Come è stato per il Concilio, e poi per il Giubileo, questa assise è stata non solo un grande evento turistico e mediatico: è stata anche un’accumulazione di idee, di energie, di conoscenze, di relazioni che daranno i loro frutti, se avremo la pazienza di “riprendere” nel tempo futuro questa ricchezza. La quale è anzitutto esperienza di quella misteriosa Grazia che abbiamo imparato a leggere negli eventi e nei nostri “fratelli”, anche in quelli che sono collocati in gruppi, in partiti, in storie che non condividiamo. Perché la caratteristica della Grazia, che viene a noi dalla Parola e dall’Eucarestia, è quella di renderci capaci di vivere e di volere approfondire la comunione anche dove dissensi e freddezza su questioni contingenti potrebbero farci disperare della possibilità d’essere un solo “popolo di Dio”.

 

In premessa alla sua prolusione il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, ha scandito una frase che i giornali hanno giustamente sottolineato e che vorrei che assumessimo come epigrafe anche di questo congresso: "E' meglio essere cristiano senza dirlo, piuttosto che proclamarlo senza esserlo". Nulla di nuovo nella sostanza, che echeggia fra l'altro la saggezza romana del  melius est esse quam videri bonus. Si tratta però di un monito azzeccato anche per noi e per questo mondo contemporaneo, che per sé privilegia l'apparire sull'essere, ma che poi ci giudica dai fatti più che dalle parole. Lo aveva capito in anticipo Francesco Guicciardini, nei suoi Ricordi: "Fate ogni cosa per parere buoni, ché serve a infinite cose, ma perché le opinioni false non durano, difficilmente vi riuscirà parere a lungo buoni, se in verità non sarete".

 

Credo che noi potremmo affrontare validamente il nostro tema congressuale anche senza chiamare mai in causa in modo esplicito la nostra fede, se riuscissimo a viverla nel profondo. E' lo stesso Gesù che dice che ci conosceranno dai frutti (Lc, 6, 44) e non dalla frequenza con cui lo avremo chiamato Signore, senza peraltro fare la sua volontà (Lc, 6, 46). Le citazioni esplicite però ci aiutano, perché la nostra conversione continua fino agli ultimi istanti della nostra vita: e parlarne insieme ci incoraggia a non sentirci impegnati solo dall'interesse per la scuola, che è il grande amore della nostra vita, ma anche da una motivazione supplementare, perché noi sappiamo che Lui metterà anche sul suo conto le buone cose che avremo fatto a chi è nel bisogno.("Tutte le volte che avrete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avrete fatto a me"). (Mt, 25.40)

 

 

Riflessioni sull’invito ad osare, rivoltoci da Tettamanzi e da Ruini

 

Torniamo a Tettamanzi, che ci ha proposto una sintesi illuminante ed esigente. Con la comunione, dobbiamo e possiamo vivere la missione: simul stabunt, simul cadent. Provo a tradurre in italiano: che cosa possiamo dire agli altri per dare ragione della speranza che è in noi, se non riusciamo raccontare la nostra storia e la nostra esperienza di vita buona, nonostante le prove e le delusioni, e a testimoniare fra noi credenti e per di più associati, reciproco rispetto, amore e solidarietà, anche quando non riusciamo ad essere reciprocamente trasparenti e unanimi su tutti gli aspetti della vita?

 

Comunione è anzitutto gioia dell'amicizia e totale ed entusiasmante condivisione di progetti; ma è anche resistenza allo spirito di divisione e di lotta interna, è consapevolezza che la preghiera di Gesù al Padre, "Fa' che siano tutti una sola cosa: come tu Padre sei in me ed io in te, anch'essi siano in noi" (Gv, 17,21), non è la formula magica dell'apriti sesamo, ma non è neppure il sogno svagato di un ingenuo palestinese, ignaro della storia e della complessità del cuore umano.

 

Dicendo che ha pregato non solo per loro, gli amici che lo hanno seguito durante il suo triennio pubblico, ma anche per quelli che avrebbero creduto attraverso di loro (Gv 17,20), e cioè per noi, assicurandoli e assicurandoci che sarà con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt, 28,20), Gesù  ci ha dato la ragione ultima di questa speranza: ragione drammatica, perché c'è di mezzo la morte in croce, e consolante, perché c'è di mezzo la resurrezione, testimoniata come sappiamo dalle fonti e confermata da due millenni di fede… e di incredulità, con cui ci confrontiamo ogni giorno.

 

La comunione della vite e dei tralci ("state in me ed io sarò in voi", Gv, 15,4)) è la condizione per la missione ("Tu mi hai mandato nel mondo:così anch'io li ho mandati nel mondo", Gv, 17,18; "vi mando come agnelli in mezzo ai lupi", Lc, 10,3) e per la partecipazione umile e coraggiosa alle vicende di tutti gli uomini. Per incoraggiare la nostra quasi impossibile ma necessaria comunione, ha aggiunto: " Se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt, 18, 20)

 

Ecco perché la missione e la partecipazione hanno bisogno di un fondamento, che in questo caso non è solo psicologico, ma teologico, ecclesiologico  e sacramentale. Un fondamento che c'è, ma che empiricamente non si vede, che nei tempi brevi della nostra percezione "non funziona", e che noi rischiamo di limitarci a ripetere con liturgie distratte, come formula rituale, senza intima convinzione: tanto è vero che spesso ci si affida a strumenti che sono quelli della contrapposizione e della rivendicazione di potere, anziché alla parresia di un confronto anche vivace ma sereno, rispettoso e fiducioso in quel Dio che sa che cosa c'è nel nostro cuore.

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Cito un esempio ricavato dal diario di Nosengo, a Camaldoli, il 31 luglio 1964. E' il racconto di un incontro festoso. "Alle 16 sulla piazzetta per il solito ricevimento degli amici in arrivo. Abbracci e saluti: Aita, Corsaro, Bertè, Bertoia, Casarino, Comandini, Costa, p.Cultrera, Grigolli, Lumetti, Torchio, Rachel, Ramello, Marchetti, Platone, Picchiarelli, Ballarino.  Poi inaugurazione del convegno, preghiera, lezione di p.Giabbani". Dopo cena, gruppo canoro. Il giorno seguente scrive: "ottimi interventi. Questi giovani, o almeno molti di essi, già amano l'Unione e si interessano vivamente alla sua vitalità. E' bellissimo. Sono il mio stimolo, il mio entusiasmo, la mia gioia, la mia speranza. Voglio consacrare molto tempo a loro, per attrarne molti e per dare vigore giovanile all'Unione. Le loro valide attese sono come dei diritti verso di noi, e, per noi, dei doveri verso di loro. Una associazione come la nostra, per vivere e crescere, deve guardare avanti, senza naturalmente perdere il suo patrimonio perenne. Le nostalgie sono cose senili".

 

Fin qui l'entusiasmo dell'UCIIM allo stato nascente. Poi aggiunge: "Nel preparare i nomi del gruppo organizzatore dimentico una persona. Ne nasce un dramma. Lettere, richieste di "giustizia", alla fine la solita domanda di perdono. Il convegno è appena iniziato e già questa croce si fa sentire. La porterò in spirito di servizio. Ma come pesa!"

 

La considerazione è questa. La vita associativa comporta attenzione, memoria, senso dell'insieme, buona organizzazione, capacità di sorridere anche quando si vorrebbe piangere, di reagire senza offendere e senza offendersi. Se qualcosa non funziona, se uno mostra limiti o smagliature nei nostri riguardi, si può reagire con sdegno o portare pazienza, magari aspettare il momento giusto, per non rovinare la festa, che vale più del disagio o dell'incomodo che si deve portare. Se si reagisce ponendo attenzione solo al proprio punto di vista, al proprio orgoglio ferito, si rischia di far portare la croce agli altri. E' proprio necessario? Non c'è un modo per chiedere giustizia che sia compatibile con la carità e con la buona armonia?

 

Le due liste che si annunciano, per la prima volta in sessant'anni, in questo congresso sono solo un inedito omaggio alla democrazia, per camminare più spediti nella gestione dell'UCIIM, o sono anche un segno dei nostri limiti personali nell'affrontare questioni che mettono in causa non solo il nostro amor proprio e le nostre ragioni, ma anche il bene dell'Unione?

 

Non rispondo sul piano psico-politico, ma ricordo, sul piano teologico, rubando il mestiere a don Carlo, che la messa, che tanto spesso rendiamo inefficace con le nostre chiusure, è la garanzia oggettiva che,  nonostante la nostra personale inadeguatezza, ogni volta e in ogni contesto si realizza, in noi e per noi, la trasfusione del Sangue del Signore, e del suo disegno di salvezza, che rende efficace il nostro stare insieme, come la terra che nutre il seme, consentendogli di crescere e di portare molto frutto: anche se quel seme vive l'esperienza del marcire e del morire.

 

Il Papa non guarda il mondo dall'alto delle sue ragioni, ma va ad incontrare i fratelli separati dell'ortodossia, i cugini separati dell'islamismo e i laici radicali della Turchia, rischiando il rifiuto, lo scherno, l'insulto e anche la pelle. Chiede scusa se ha detto qualche parola di troppo. Ad Agrigento l'UCIIM ha lavorato sui temi dell'intercultura e pregato con i colleghi islamici del Co.Re.Is., con i quali condivide la visione serena del dialogo come impegno di vita e di educazione.

 

Il cardinal Ruini, nella sua lunga e densa relazione conclusiva al convegno ecclesiale, preparata in gran parte nella notte precedente l’ultima giornata, dopo aver richiamato i punti essenziali della “animazione cristiana delle realtà sociali, che i laici devono compiere con autonoma iniziativa e responsabilità e al contempo nella fedeltà all’insegnamento della Chiesa”, ha insistito sulla necessità “di una formazione cristiana realmente profonda, nutrita di preghiera e motivata e attrezzata anche culturalmente. Di fronte a una tale prospettiva, ha notato, diviene ancora più evidente la necessità di comunione e di un impegno sempre più sinergico tra i laici cristiani e le loro diverse forme di aggregazione, mentre si rivelano davvero privi di fondamento gli atteggiamenti concorrenziali e i timori reciproci”.

 

"Privi di fondamento", significa che tali atteggiamenti non sono razionali né teologicamente fondati, per chi accetti d’essere “testimone di Gesù risorto”. Eppure ci sono, in noi e negli altri., e ci tocca sopportarli e di combatterli fin dov’è possibile, senza angosce e impazienze. Per questo le grandi esperienze di Chiesa sono un rinnovato incoraggiamento per tutti ad osare di superare i propri recinti psicologici, le proprie angustie e debolezze culturali e spirituali e a non reagire con il codice di Hammurabi dell'occhio per occhio alle sgarberie altrui. La citata preghiera di Gesù al Padre “Ut unum sint” non è un “volemose bene”, né un “pensiamo alla salute”, per concludere la giornata a tarallucci e vino: la  salute di cui parla e il pane e il vino della sua cena hanno una drammaticità e una intensità più profonda, che sa affrontare il tradimento e la morte, con un amore che rispetta la libertà.

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Egli sapeva che i discorsi sull'unità paradossalmente dividono ("Non sono venuto a portare la pace, ma la divisione", Lc, 12, 52), perché noi siamo alla ricerca di persone simili a noi che ci accettino e ci aiutino nei nostri progetti, piuttosto che di prossimi diversi che ci pongano problemi. Il suo comandamento però riguarda non l'amore del simile, che parla la nostra lingua o che vota per il nostro partito, ma l'amore del prossimo, perfino dei nemici che ci stanno accanto, se loro, non noi, decidono di considerarci nemici. Certo, prevedeva anche un rifiuto invincibile, e in questo caso invitava i discepoli ad andarsene, "scuotendo la polvere dai calzari": ma questo rappresenta un fallimento, almeno temporaneo, anche dei suoi, non solo di chi rifiuta di accoglierli. (Lc, 10,10)

 

Il cardinale Tettamanzi ha proposto “la rilettura ecclesiologica del comandamento biblico  dell’ama il prossimo tuo come te stesso”. Con rigorosa logica, ha detto, questa “regola aurea” si declina così: "ama la parrocchia altrui come la tua, l’aggregazione altrui come la tua…”.Non ci sono dubbi, ha aggiunto: nel mysterium Ecclesiae ciò è possibile, ciò è doveroso: non solo nell’intenzione e nella preghiera, ma anche nella concretezza dell’azione”.

E’ un invito a faticare per generare unità e a non darsi per vinti, perché il senso della vita non sta nell'andarsene ciascuno per conto proprio. Leggo un pensiero con cui Chiara Lubich riassume l'esperienza del movimento mondiale dei Focolari: "La nostra spiritualità, che è eminentemente collettiva, insegna quest'arte di amare fino al punto di generare l'unità".

 

Il senso della vita tra verità e carità: contrasti, divisioni e aggregazioni

 

Il senso della vita si trova nello sforzo di coniugare la propria verità con quella degli altri, sapendo che c'è una verità con la V maiuscola, che tutti comprende e tutti attende, perché non è una ipotetica mappa del tesoro o qualche volume nascosto da qualche parte, come la Poetica di Aristotele o il Codice da Vinci, ma Qualcuno, da cui veniamo, in cui siamo e a cui andiamo. Ancora: il senso della vita si trova nel coniugare verità e carità, nell'affrontare il rischio di peggiorare le cose per amore della verità, e insieme il rischio di non servire la verità in nome della pazienza e della carità. “Il vostro linguaggio, dice il Maestro, sia sì sì, no, no”(Mt, 5,37); ma poi Matteo riferisce a Lui le parole di Isaia (42,1-4) sul Messia: "Se una canna è incrinata non la spezzerà, se una lampada è debole non la spegnerà" (Mt,12,20).E raccomanda, con l'astuzia del serpente, la semplicità della colomba. (Mt, 10,16). Verità, prudenza, carità: non ricette, ma invito a giocarsi responsabilmente nella relazione, trafficando e non seppellendo i propri talenti. (Mt, 25, 14-30)

 

Ha scritto Nosengo sull'agenda il 3.6.64: "E' il contrasto che mi dà maggior pena  e che, direi, colma la misura anche della mia apprensione umana. Perché, mentre vorrei andare d'accordo con tutti, devo bere questo amaro calice del contrasto, delle polemiche, delle incomprensioni reciproche?   Che pena, Signore, te la offro perché serva a qualche cosa".

Ho confrontato questa frase con quanto scrisse don Milani, autore da lui molto stimato, in Esperienze pastorali:: "Non ho seminato che contrasti, discussioni, opposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto...Ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco".

 

Certo non raccomanderei, per la tranquillità della vita dell'UCIIM, atteggiamenti e comportamenti così poco diplomatici. Ma un po' di questo spirito non guasterebbe; e noi non rimarremmo tanto turbati e sconvolti per i contrasti che fisiologicamente serpeggiano anche fra noi, ma ci chiederemmo che cosa possiamo fare per chiarire,  convincere e costruire, col contributo di tutti, e non solo per isolare chi non è d'accordo, magari solo per un equivoco. Gesù ha presentato il suo Vangelo con le immagini del sale e del lievito, della spada e del fuoco, (Lc, 12,49); ma ha proclamato beati i non violenti, i compassionevoli, i puri di cuore, i pacificatori, i perseguitati con falsità e calunnie perché hanno creduto in lui. "Panikkar, nota Brunetto Salvarani, direttore di CEM Mondialità, ci dice qual è il punto d'avvio  per qualsiasi dialogo serio, identificandolo in quel cuore puro cui esortano tutte le tradizioni religiose".(CEM Mondialità, nov 2006, p.1)

 

Si può immaginare di evitare i contrasti riducendo il numero delle interazioni e delle persone con cui avere parte. E' la logica di quei proverbi che dicono: "chi fa da sé fa per tre"; "poca brigata vita beata", dimenticando l’altro proverbio che dice: "l’unione fa la forza". Ma i contrasti sono come i lombrichi: se li tagli in due, dalle due parti si formano due nuovi individui, che continuano ad agitarsi, come soggetti distinti. E se uno si riduce alla solitudine, per non aver contrasti con nessuno, finisce per non andar d'accordo neppure con se stesso, come dimostrano tante cronache di depressione.

 

Gli attriti, dentro e fuori qualunque gruppo umano, sono inevitabili, come ci ricorda la metafora della colomba kantiana, che sogna di procedere più spedita senza l'attrito dell'aria, ignorando il fatto che senz'aria non potrebbe neppure volare.

 

Ma già che ho parlato di lombrichi, un tema a dire il vero non molto congressuale, ricordo che questi anellidi, agitandosi e mangiando terra, contribuiscono a renderla più fertile. Chissà che, come i lombrichi nella nostra agricoltura, anche i nostri contrasti non abbiano un ruolo importante, nell’agricoltura divina. Certo Gesù non li raccomanda, quando ricorda che "Se una città o una famiglia si divide e le persone litigano tra loro, non potranno  durare". E conclude senza molta diplomazia: "chi non raccoglie con me, spreca il raccolto" (Mt, 12, 25-30)

 

La storia dei partiti politici, in particolare di quelli della sinistra, a cominciare dal Settecento, è notevolmente istruttiva, a proposito del far da sé o dell'aggregarsi. Hanno in qualche modo ragione coloro che dicono che uniti si vince, ma anche coloro che dicono che uniti si perde. Poi si è inventato il marciare divisi per colpire uniti, ma la vita di un'associazione professionale cattolica non assomiglia ad un esercito che deve conquistare un castello.

 

Il problema non è tanto quello della semplice vittoria per sopravvivere, con la propria identità visibile e col proprio patrimonio, naturalmente finché si riesce ad essere attrattivi verso i giovani; il problema è quello della qualità del contributo che si riesce a dare e dei risultati che si possono ottenere, stando per conto proprio o integrandosi con altri.

 

Naturalmente se i tempi fossero malvagi come nel Dugento fiorentino, qualcuno di noi potrebbe decidere, come il "ghibellin fuggiasco", di "fare parte per se stesso", in attesa che la storia gli dia ragione. Ma siamo veramente in queste condizioni? O ci spaventiamo per difficoltà e differenze tutto sommato assai modeste? Che ne facciamo degli inviti ormai quasi trentennali degli ultimi due papi a non avere paura e ad aprire le porte a Cristo, che sa che cosa c'è nel cuore dell'uomo?

 

Pensieri dell'orto e della frontiera; dell'oggi e del domani

 

Se i nostri pensieri, come ha scritto Gabriele Calvi, sono quelli dell'orto e non della frontiera, possiamo occuparci dell'insalata e disinteressarci della fame nel mondo. Se ci interessiamo solo dei nostri alunni, possiamo disinteressarci della Costituzione, della finanziaria, dell'Europa e dell’ONU. In questo caso non voleremmo come aquile, ma rischieremmo di rassegnarci a razzolare nel cortile come polli.  Sarebbe questo un modo riduttivo di vivere sia la professione docente, sia la missione che abbiamo accettato in quanto laici cristiani, che è quella di "andare e fare discepoli tutti i popoli" (Mt, 28,19).

 

Questo fare discepoli non implica il pescare uomini e donne come se fossero branzini e trote e  convertirli con le prediche, ma servire il loro sviluppo umano nella concretezza dell'istituzione in cui si vive, con i tempi, le discipline, gli spazi di cui si dispone, per informarli e aiutarli a capire e a portare da sé il peso dell’apprendere e del decidere, del consenso e del dissenso, nei confronti della vita e degli altri, nell'ipotesi non peregrina che fra questi altri ci sia anche il nostro Creatore, che ci attende dalla fine della storia.

 

In questo cammino noi abbiamo scelto di associarci. Un conto è amministrare la cosa pubblica, un altro conto è militare in un partito, o in un sindacato o in un’associazione. Fra le associazioni ci sono quelle ecclesiali, di cui facciamo parte e con le quali abbiamo caratteristiche simili e  diverse.

Nella sua prima stagione l'UCIIM, pur essendo stata promossa, negli anni 1943-44, dai vertici della Chiesa e del Movimento laureati di Azione cattolica (ricordo mons. Montini, mons. Pignedoli e l'avv. Veronese), ha dovuto in vario modo lottare per difendere la propria specificità di associazione professionale, autonoma e democratica, nella scelta dei contenuti, delle decisioni e delle persone.

 

Oggi il problema non è più quello di decidere in autonomia i propri temi, le proprie iniziative e la propria dirigenza, ma quello di essere sale e lievito capaci di insaporire e di far crescere la pasta, per trasformarla in pane. I vescovi potranno darci il forno, se sono in grado di farlo e se si fidano di noi; ma il resto tocca a noi. Anche in questo ambito, come nella scuola, si constata che la libertà e l'autonomia che non si riesce a darsi è più di quella che ci viene tolta.

 

Parlarsi per non morire, oltre l'afasia laicale e la dispersione di energie

 

Negli ultimi tempi c'è stato un vivace dibattito sulla loquacità, intorno a questioni etiche di rilevanza politica, del cardinale presidente della CEI, e sulla reale o presunta afasia del laicato cattolico. Noi non siamo stati zittiti e censurati, non solo perché siamo laici adulti e costumati, ma perché non abbiamo trovato nella Chiesa la volontà di dominio che qualche ambiente esterno s'immagina. Forse l'afasia è frutto della censura operata dai mass media, che preferiscono un cardinale a un professorino; forse è frutto della scarsa energia propositiva delle associazioni laicali.

 

E la nostra modesta capacità attrattiva nei riguardi dei giovani colleghi può dipendere dalla loro debolezza di visione o dal carico di lavoro scolastico che cresce, accanto agli impegni familiari per l'assistenza contemporanea ai bambini e ai genitori anziani; o dalla timidezza dei vescovi e dei preti nel farci capire che la nostra salvezza passa anche attraverso l'impegno di perfezionamento del nostro servizio professionale; o dalla diffusa sfiducia nella possibilità di fare insieme cose belle, utili, interessanti, per essere protagonisti del rinnovamento della scuola e della società.

 

I giovani colleghi non ci chiedono se siamo autonomi e democratici o dipendenti dalla Gerarchia, ma se siamo intelligenti, accoglienti nei fatti e non solo nelle parole, capaci di contagiarli col nostro entusiasmo o almeno col nostro sincero desiderio di entusiasmarci, di guidarli in qualche impresa importante e anche di lasciarli liberi d'impegnarsi e d'impegnare l'associazione per qualcosa per cui valga la pena di lasciare a casa o altrove altre occupazioni e di fare anche le ore piccole a tavolino.

 

Quelli di noi che sono anziani debbono chiedersi se si serve più l'Unione lasciando spazio agli altri o resistendo  nel nostro servizio; e se questo lasciare o restare è il modo migliore per valorizzare le risorse esistenti e per prepararsi a passare il testimone ad un giovane responsabile, che non sia clonato sui nostri gusti, ma che sia abbastanza provveduto e interessato allo spirito dell'UCIIM e non solo alla sua organizzazione. La misura del nostro amore sta nella sincera disponibilità o a lasciare  gli incarichi direttivi, o a resistere, magari come segretari o esperti, perfino come animatori telefonici o telematici, in rapporto al bene che ci sta a cuore, ossia alla possibilità che l'associazione ci sopravviva, nello spirito e non necessariamente nelle forme che ha avuto finora.

 

Se l'attaccamento a quel poco potere che è consentito ai dirigenti d'una associazione che si regge sul volontariato e la contestazione a questo potere rendono gli animi meno disponibili all'accoglienza, alla critica aperta e costruttiva, all'impegno di studio, di presenza, di organizzazione di attività spirituali, culturali, formative, la perdita di energia che ne deriva compromette la qualità della vita associativa e ne riduce la produttività in termini di servizio.

 

Se tra giovani e anziani la mentalità del consumatore di corsi, di servizi, di prestigio, di aiuti, per cavarsela nella vita, prevale su quella del credente che si associa non solo per fruire, ma anche per produrre artigianalmente questi servizi culturali, professionali e associativi, non c'è da stupirsi se si è attenuata, soprattutto in alcune regioni, la spinta propulsiva che abbiamo vissuto nella prima lunga stagione espansiva della vita dell'UCIIM.

 

Non c’è da stupirsi, ma c’è da inquietarsi e da reagire, per valutare, oltre alle difficoltà, anche le inedite opportunità storiche che abbiamo di fronte, sia in ambito ecclesiale, sia in ambito civile e istituzionale. Pensiamo alle aperture di credito della CEI nei nostri confronti, alla sussidiarietà affermata nell'art 118 della Costituzione, alla qualificazione che l'UCIIM ha finora ottenuto dal MPI come ente idoneo a produrre ricerca e formazione. Ogni giorno c'è una montagna di emergenze, di sedi nelle quali  intervenire, per informarsi, per capire e far sentire motivatamente la nostra voce; e c'è un'altra montagna di bene da fare, mentre troppi docenti cattolici, delle scuole statali, paritarie e della formazione professionale, non riescono a trovare la strada delle nostre associazioni, o, se la trovano, talora se ne vanno delusi. 

 

Forse molti non sanno quanto ci si guadagna a occuparsi degli altri in modo generoso e disinteressato. Io non penso che il problema si risolva solo aumentando la convenienza a diventare soci, in termini di gadget offerti o di vantaggi, che tra l’altro non siamo in grado di assicurare, almeno fintanto che non cambia la normativa sull’associazionismo professionale. Chiediamoci che cosa possiamo fare per l'UCIIM, non che cosa possiamo riceverne: e solo a queste condizioni riceveremo più di quello che desideriamo.

 

Si tratta di mettere in valore il nostro core business, che è la gioia di concorrere alla generazione di una umanità migliore, vivendone già un'anticipazione con persone che ci credono, che sanno collaborare in modo intelligente, generoso, utile, simpatico, umile, ricordandosi che si sta collaborando con Gesù maestro, che non era di ruolo, ma che valeva e vale più di qualche pedagogista di passaggio.

 

Apertura e sinergie in ambito ecclesiale, a livello nazionale ed europeo

 

La sproporzione fra la messe abbondante e l’esiguità del numero degli operai era nota anche a Lui, (Mt. 9, 37), che giunse a domandarsi se il Figlio dell'Uomo, quando ritornerà, troverà ancora  fede sulla terra (Lc, 18,8);  ma non per questo ha rinunciato a proporre ai suoi una missione umanamente impossibile, come diventare perfetti come il Padre (Mt, 5,48), assicurando comunque, anche se l'invito non dovesse essere accolto, che "le porte degli inferi  non prevarranno" contro la sua Chiesa (Mt, 16, 18). A maggior ragione noi non siamo certi del futuro dell'UCIIM, anche se abbiamo la ragionevole certezza che le condizioni di oggi siano più favorevoli di quelle dei primi cristiani. Del resto siamo al Salesianum, e non nelle Catacombe.

 

Se allarghiamo lo sguardo e il cuore, oltre il recinto del cortile e dell’orto,  e se accettiamo di ragionare intorno a un tavolo ecclesiale di pastorale scolastica, come si è cominciato a fare, con prudenza e discrezione, ma con sempre maggior convinzione, negli anni scorsi, scopriamo la ragionevolezza di possibili sinergie, che potrebbero sfociare anche in qualcosa di più dal punto di vista organizzativo e operativo, dentro e oltre la CNAL, consulta nazionale delle aggregazioni laicali, condiretta finora da Maria Vittoria Cavallari, sull'esempio di Retinopera.

 

Nosengo ebbe l’idea di una federazione di forze cattoliche interessate all’educazione. Si legge nella sua agenda del 1957, 12 novembre: "Mi è nata e si è chiarita un'idea: fare una federazione delle forze educative cattoliche italiane. Lega educativa di genitori, insegnanti, studenti della scuola italiana. L.E.G.I.A.S.I. Potrebbe essere democratica e prendere iniziative, mentre l'I.C.E non può e deve restare organo tecnico dell'ACI. L'ACI smorza molte cose".

 

Oggi non è più così. L'ACI ci guarda con molta simpatia e anche i rapporti col MEIC sono ottimi, dopo quattro convegni organizzati insieme e dopo la partecipazione del presidente dell'UCIIM come relatore a due loro assemblee congressuali. Il presidente Luigi Alici ha parlato di una collana di associazioni, saldamente legate fra loro, e Renato Balduzzi, che presiede il MEIC condivide l'idea di un movimento che rappresenti in qualche modo un luogo in cui le unioni professionali tornano volentieri, per crescere insieme nelle questioni di fondo, trasversali a tutto il mondo della cultura e delle professioni. E del resto il nostro relatore ufficiale Roberto Cipriani, che ringrazio vivamente, oltre che sociologo illustre e socio AIDU, è anche un dirigente del MEIC.

 

Nulla sapendo di questa antica idea di Nosengo, ebbi anch'io una pensata simile, anche se più modesta. Eravamo ad Arezzo, nel 1997, quarant'anni dopo, in occasione di un incontro commemorativo del pedagogista Mario Mencarelli, che, come il nostro Aldo Agazzi, fu maestro, preside di scuola media e docente universitario. Perché non pensare ad una federazione italiana docenti cattolici, FIDOC o qualcosa di simile? Buttai là l'idea.

 

L'allora presidente dell'AIMC Bruno Forte, informato, mi scrisse che con quella uscita rischiavo di bruciare una buona idea. Risposi che, se è buona, non c'è auspicio che la bruci. Se è cattiva o non matura, non bastano le raccomandazioni a farla camminare. E aggiungevo, in un lettera del 1.1.1998: "Io temo forse che, presi dalla legittima cura dei beni morali e associativi che abbiamo avuto in eredità, non scrutiamo abbastanza il cielo per cogliervi i segni dei tempi, e lasciamo passare il tempo della semina. I frutti arriveranno certo più tardi, ma solo se si sarà seminato in tempo".

 

Ricordo ancora una pagina di Nosengo, che si dedicò lungamente, nel suo insegnamento universitario, a meditare sulla parabola del Seminatore e sul senso evangelico delle metafore agricole. "Se uno getta il seme è certo che viene la pianta, ma solo se il seme è vivo , la terra è buona, nessuno la sradica e non vengono alluvioni. Per il seme del Regno di Dio questo è certo. Ma per i semi che gettiamo noi? Valgono per quanto sono Regno di Dio. Ma anche i semi della gramigna crescono in piante….La storia, che mistero a guardarla dal di sotto! E i miei piccoli semi? Sono veri semi? Hanno trovato terreno? Daranno almeno un'erbetta? Oppure erano cariati e non daranno nulla?" (Diario, 13 nov.1966)

 

In altri momenti, di fronte alla risposta a suo giudizio deludente che otteneva sia dai vertici della Chiesa, sia dalla base, sia dai suoi più diretti collaboratori, avvertiva che l'UCIIM lo teneva vincolato a lavorare come un forsennato in un ambito troppo circoscritto; e allora aveva il desiderio di lasciare l'incarico ad altri, per poter allargare gli orizzonti del suo impegno culturale e apostolico. Era stato per un quinquennio commissario degli scout cattolici, e tra l'altro cofondatore del SIESC segretariato internazionale insegnanti secondari cattolici.

 

Questa aggregazione, aderente a Pax Romana, una ONG riconosciuta dal Vaticano e dagli organismi internazionali, operativa con convegni annuali da oltre mezzo secolo, ha modificato proprio quest'anno lo statuto, divenendo Federazione europea di insegnanti cristiani, SIESC-FEEC. Vi possono aderire associazioni di docenti primari, secondari e universitari: c'è spazio per l'AIMC, l'AIDU, Diesse. Che vogliamo fare di questo lascito prezioso, di cui Cesarina Checcacci è presidente onoraria e Enza Grecuzzo vicepresidente in carica, un club di vecchietti nostalgici o l'avanguardia della nuova Ecclesia in Europa, per citare uno dei testi più belli di Giovanni Paolo il Grande?

 

O si riesce a respirare l'aria dell'Europa, del mondo e della Chiesa universale (che tra l'altro dispone in Europa di validi organismi episcopali), e allora, nella prospettiva di chi si dedica alla realizzazione di un disegno dai vasti orizzonti, si può avere il coraggio e la pazienza di dedicarsi al proprio orto associativo; o altrimenti l'UCIIM rischia di invecchiare non solo dal punto di vista anagrafico, com'è naturale, ma anche dal punto di vista della struttura associativa. Questa sarebbe la conseguenza di una chiusura e di una possibile necrosi, paragonabile alle cellule che non si mettono in gioco con l'intero l'organismo, o alle istituzioni umane che non sanno rinnovarsi nella missione o nell'organizzazione o nei membri che la costituiscono.

 

Le condizioni socioculturali e istituzionali non sono più quelle dei padri fondatori. Ci sono le regioni e c'è il nuovo  titolo V della Costituzione. Anche l'UCIIM ha un respiro regionale e locale potenzialmente più ricco di iniziative e di risorse "sussidiarie". Bisogna però non dimenticare che l'Unione è italiana, non piemontese, emiliana o siciliana: e che Roma è sede della CEI, del Governo nazionale, del Parlamento e di tutte le iniziative nazionali assunte da molte organizzazioni con le quali l'UCIIM ha tutto l'interesse ad avere rapporti. Non per nulla ci sono leggi speciali per Roma. Vuole tenerne conto anche l'UCIIM, nella configurazione del Consiglio centrale e della presidenza nazionale?

 

Uno degli impegni che abbiamo fortemente voluto è quello del FONADDS, che significa forum nazionale delle associazioni di docenti e dirigenti scolastici, perché riteniamo che l'unione non faccia la forza solo in ambito cattolico, ma anche in ambito professionale, nel rapporto con le istituzioni, in primis il MPI. Il ministro Fioroni ha dato credito a questa sede di informazione, elaborazione, dialogo, proposta: ha parlato di consulenza all'azione del Governo. Al di là del dibattito sui ruoli, il fatto che ci sia interesse reciproco a confrontarsi e a contribuire a risolvere i problemi, apre delle porte all'associazionismo professionale dei docenti e dei dirigenti scolastici. Bisogna saperci entrare e impegnarsi a dare effettivi contributi. Ora siamo accasati presso la Direzione generale del Personale del MPI.

 

"Sacerdoti e laici: crescere insieme o decadere insieme"

 

Vorrei tornare ancora un  momento sul dialogo intraecclesiale, citato in un bel passaggio del discorso del cardinale presidente della CEI che voglio sottolineare: “dobbiamo essere consapevoli, ha detto, che tra sacerdoti e laici esiste un legame profondo, per cui in un’ottica autenticamente cristiana possiamo solo crescere insieme, o invece decadere insieme”. Loro ci invitano, quando lo fanno, e non tutte le diocesi lo fanno, ad incontri sulla pastorale scolastica; noi parliamo di spiritualità professionale e di animazione cristiana dell’ordine temporale, nel rispetto della sua autonomia. Venga dall’alto, dal mandato di Gesù a Pietro, o venga dal basso, dai cristifideles laici, sulla base del loro battesimo e della loro competenza, il mandato ad insegnare, ad educare nella scuola e l'invito ad associarci per farlo meglio, dispongono di una duplice concorrente legittimazione e ci portano entrambi a collaborare lealmente, a chiedere e a dare aiuto a vescovi e preti, a cominciare magari dalle parrocchie.

 

I nostri consulenti non sono figure ornamentali deputate al servizio liturgico un paio di volte l’anno. Sono, quando ci sono e sono bravi e sostenuti dai soci UCIIM, mediatori dei rapporti col Signore e con la componente gerarchica della Chiesa, ma soprattutto maestri di spiritualità professionale e amici che ci danno una mano di fronte alle difficoltà del compito che ci assumiamo.

 

Ricordo che Nosengo, per affermare la sua piena laicità e il valore intrinseco dell’associazione professionale cattolica, rinunciò sia a sposarsi, sia a farsi prete, e anche alla carriera universitaria, amministrativa e politica, che gli vennero offerte in più occasioni. Ma ricordo anche che confidò molte amarezze al suo diario, quando non si trovava un prete in gamba che fosse disponibile a svolgere il ruolo del consulente, o quando la FUCI non accettava di dare spazio alla presentazione dell’UCIIM ai suoi soci che si sarebbero dedicati all’insegnamento. Chiusure, sospetti, sconnessioni fra ambiti, gruppi e momenti indeboliscono le possibilità intuite quando si innalza lo sguardo e si vede lo spreco del bene possibile.

 

E pensare che Salomone, quando ebbe la possibilità di chiedere a Dio qualunque dono, nella sua grande sapienza chiese solo un lev shomer, un cuore capace di ascoltare. Ricordano e accettano questa la lezione due maestri di cultura e di spiritualità presenti a diverso titolo sulla scena mondiale, fra oriente e occidente: il sacerdote cattolico Raimon Panikkar e il premio Nobel per l'economia Amartya Sen. Senza aprirsi all'altro, senza riconoscere la natura plurale della nostra identità, senza accettare qualche forma di meticciamento, siamo destinati a diventare prigionieri della logica distruttiva che sta da decenni affaticando il Medio Oriente e che rischia di infettare il mondo intero. E si noti che Salomone appartiene all'Antico Testamento, non al Nuovo, che porta la buona novella dell'amore incondizionato di Dio e il comandamento di amare anche i nemici.

 

2. Dopo le elezioni politiche: l'UCIIM nella società italiana e nella scuola

 

La società civile: uno specchio da aggiustare

 

Ho iniziato questa relazione ricordando le icone rasserenanti del Capo della Chiesa e del Capo dello Stato, soffermandomi a parlare della dimensione di Chiesa che caratterizza l’UCIIM. Occorre ora occuparsi della dimensione civile e politica che ci riguarda come cittadini di questo stato, e più in generale di un'Europa in costruzione e di un mondo che avanza verso inquietanti squilibri demografici, economici, ecologici, militari. Si tratta di dimensioni da esplorare e da vivere, per poter aiutare i ragazzi a capirle e a viverle con responsabilità.

 

Vorrei farlo ricordando gli anni che ho passato nel mio servizio pubblico, come docente prima secondario, poi universitario, poi come presidente dell'IRRSAE Lombardia, come vicepresidente del CNPI e come sottosegretario all’istruzione: ho giurato tre volte e ho lavorato con due bandiere dietro le spalle. In complesso mi sono appassionato e divertito. E ho colto il senso delle cose belle e grandi che si possono fare “nel palazzo”, nonostante complessità e contraddizioni, se si conserva l’animo dell’insegnante e dell’ex alunno a cui si è avverato un sogno. Mi viene in mente che fra una settimana tornerò a Reggio Emilia, invitato da una classe di periti meccanici miei ex alunni, che vogliono festeggiare con me i loro quarant’anni di diploma.

 

Bisogna però guardare all’oggi. Lo faccio utilizzando un articolo di Eugenio Scalfari, dal titolo "Fratelli d'Italia, lo specchio s'è rotto", uscito su Repubblica il 5 novembre scorso e ripreso da vari editorialisti, da Ilvo Diamanti a Barbara Spinelli, a Giuseppe D’Avanzo. Non parla della società spaccata in due, secondo le regole bipolari, ma di una frammentazione più totale.

 

Ne cito alcuni passaggi, perché i fatti e le considerazioni di questo articolo ci interpellano profondamente come persone, cittadini, professionisti dell'educazione, oltre che  come ucimini, per richiamare tutte le dimensioni su cui abbiamo riflettuto nel passato congresso di Frascati, nel 2004.

E’ questo il capitolo delle sfide, da affrontarsi in termini di presa di coscienza della gravità delle situazioni e della necessità di attrezzarsi per uscirne il meglio che sia possibile. L’educazione non è solo affare di testa, ma anche di cuore, diceva don Bosco. Aggiungo che non è solo questione di buona volontà, ma anche di lucidità intellettuale e di assunzione in carico di compiti proporzionati alle nostre possibilità di oggi e a quelle di domani, se sapremo condividere con altri queste convinzioni e aumentare la cerchia delle forze in campo, con le quali collaborare.

 

Ecco la diagnosi di Scalfari: "A guardare con occhi distaccati (ma è possibile?) l'Italia di oggi viene in mente uno specchio rotto. Tanti specchi rotti e ridotti in frammenti, che riflettono, ciascuno, un'immagine parziale e deformata della società… In quella molteplicità d'immagini si specchia una moltitudine di gruppi sociali grandi e piccoli: nei frammenti di minime dimensioni si specchiano singoli individui. Ciascuno – gruppi e individui - guarda se stesso e se ne compiace, ma non c'è la visione d'insieme. Si parla molto spesso di identità condivisa, di valori e di obiettivi condivisi, senza comprendere che la condivisione è diventata impossibile.

 

Ci vorrebbe uno specchio unico per avere un'identità unica collettiva, ma è proprio questo che ci manca. Come è potuto accadere? E quando è accaduto?" Qui Scalfari fa un rapido excursus storico, ricordando Carlo VIII, Guicciardini, la conquista piemontese del Sud, la fine dello Stato Pontificio, lo sfascio della patria l'8 settembre del 1943. Si potrebbe continuare con Tangentopoli. Non è tuttavia di queste rotture che vuol parlare nell'articolo. "Noi qui vogliamo parlare di quanto è avvenuto in una società sostanzialmente opulenta o quanto meno abbiente, nella quale l'identità è andata in pezzi, in assenza di gruppi che avessero una visione chiara del bene comune, diversa da una concezione puramente mercantile.

 

Quando il denaro diventa il valore esclusivo, e insieme ad esso il potere che procura denaro; quando il sentimento morale si riduce ad una maschera o addirittura ad un ipocrita luogo comune, allora l'identità condivisa va in pezzi, le corporazioni si disputano le risorse, ciascuno difende il suo e cerca cupidamente di appropriarsi dell'altrui, tutti comunque cospirano contro il bene comune e l'interesse generale, con tanto più vigore quanto meno l'interesse generale e il bene comune sono percepiti come realtà e come obiettivi individuabili e condivisibili. Questo è ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi sgomenti”. Il presidente Prodi ha parlato di impazzimento della società, riferendosi non ai manicomi, ma alla maionese, quando l'olio resta separato dall'uovo.

 

Non seguo la fenomenologia di queste vicende, ricavate dalla lunga “guerra civile” che si è vista finora nel corso dell’elaborazione parlamentare della finanziaria, se non per ricordare quanto è successo nel nostro mondo scolastico.

 

Noi abbiamo difeso le ragioni della scuola, di fronte ad altri capitoli della spesa pubblica, ritenendo che, in complesso, si tratti di investimento sociale e non di consumo. Sappiamo che ci sono anche sprechi e inefficienze, ma il problema si risolve attraverso una gestione più oculata dei bilanci da parte di tutti i soggetti dotati di poteri in proposito, non attraverso tagli indiscriminati.

 

Altri ha trovato modi di protesta e rivendicazioni che, a tacer d'altro, non ci paiono compatibili con le condizioni della finanza pubblica. Nella manifestazione indetta dai COBAS, nei giorni scorsi, la piattaforma rivendicativa comprendeva fra l'altro il ripristino della scala mobile, l'abolizione del fondo di istituto, la fine dei finanziamenti alle scuole private, l'abolizione della legge Moratti, l'assunzione dei precari, il rinnovo immediato dei contratti con salari europei, la riduzione del numero degli alunni per classe, il diritto di indire assemblee per tutti in orario di servizio.

 

Colpisce, oltre ad alcune richieste di merito, che ci condurrebbero fuori dal contesto europeo, la gragnola dei Vogliamo gridati e scritti nel loro manifesto. Certo una piattaforma non è un trattato.

Ma preoccupa che non venga in mente a questi colleghi che l'erba voglio non cresce neanche nel giardino del re, e che le ristrettezze di cui avvertono il peso e l'ingiustizia sono anche il frutto di concessioni fatte dai governi italiani, dal '70 in poi, con risorse che non c'erano, e che hanno prodotto il debito che ci portiamo dietro. Vogliono un trattamento paragonabile a quello della Francia e del Regno Unito, dimenticando che questi paesi non hanno, come noi, un debito pubblico, il cui servizio ci costa annualmente molto più dell'intero sistema educativo di istruzione e di formazione.

 

Ma come si può pensare di insegnare e di educare nella scuola, se non si ha in mente nella sua interezza il patto costituzionale, quello che ci ha consentito di uscire dal fascismo e dalla guerra e di approdare alla democrazia repubblicana? Senza la bussola del rispetto di diritti inviolabili e dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale, si rischia il naufragio.

 

Se si erogassero fondi indipendentemente dalla consistenza delle risorse disponibili, com'è successo nei decenni scorsi, si aggiungerebbe ingiustizia a ingiustizia, con danno gravissimo per l'intero paese e in particolare per i giovani, che dovrebbero pagare i debiti fatti dagli adulti di ieri e da quelli di oggi. Se l'orizzonte di tutti è la  difesa delle proprie tasche, gli equilibri dei sistemi di cui facciamo parte possono saltare. L'immagine del naufragio non è solo una fantasia letteraria.

 

Si deve dire che anche i giornali e i telegiornali hanno contribuito ad un clima da si salvi chi può, presentando ogni provvedimento come un ladrocinio, come una stangata, come una fucilata: colpiti questi, colpiti quelli, colpito questo settore o quest'altro. E' toccato al ministro Padoa Schioppa e al vescovo Bruno Forte ricordare che sono gli evasori, di fatto, a rubare a tutti noi, costringendo lo Stato ad alzare le tasse di chi non può o non vuole evaderle.

 

Non ho letto di proteste per la riduzione dei fondi per la cooperazione allo sviluppo, al di fuori delle benemerite associazioni di volontariato internazionale.

Eppure una visione internazionale e globale dei problemi è sempre più indispensabile, per capire il mondo e per prepararsi a viverlo in termini consapevoli e responsabili. E' noto che siamo seduti su un Pianeta instabile, secondo alcuni esplosivo. Si parla di bomba demografica, di bomba ecologica, di bomba energetica, di bomba virale, ma anche di bomba ideologica, di possibile scontro di civiltà.

La scienza ci allunga la vita, ma non ancora la preveggenza e la capacità di comportarci secondo la coscienza che abbiamo del bene e del male possibili e di quelli ragionevolmente inevitabili.

 

Basti pensare al Rapporto Stern, uscito il 30 ottobre scorso. Settecento pagine per argomentare la crisi economica mondiale cui andremo incontro, se non si comincerà subito a muoversi secondo la logica di uno sviluppo compatibile col sistema delle risorse del Pianeta.

Ci sono problemi enormi da affrontare, se non si vuole che il sistema mondiale si sregoli in modo irreversibile. Davvero non c'è molto tempo per cambiare modo di pensare, di consumare e di vivere.

 

Qualcuno di noi, ricordo di passaggio, ha viaggiato per l'UCIIM a proprie spese, ma non ci sentiamo derubati; e se abbiamo dovuto rinunciare a qualche incontro nazionale, non lo abbiamo fatto per colpire i dirigenti periferici, ma semplicemente perché non avevamo soldi in cassa e non ce la siamo sentita di mettere tutto a loro carico o di aumentare il costo della quota d'iscrizione. E il consiglio centrale uscente non ha ritenuto giusto addossare debiti alla prossima gestione o far correre rischi a quel gioiello di famiglia, che è costituito dall'appartamento romano che Pagella ha comprato con i proventi dei diritti d'autore di Gesualdo Nosengo.

 

La CEI ci ha aiutato, e la ringraziamo. Ricordo, dato che abbiamo dato un'occhiata agli archivi, che il 7 settembre 1946 il sostituto della Segreteria di Stato di Sua Santità Pio XII Giovanni Battista Montini mandava a Nosengo un "piccolo aiuto" (L.50.000). La causa, diceva, meriterebbe di più, ma i mezzi sono limitati. Altri, e soprattutto la Provvidenza, faranno il resto!"

 

Il disboscamento delle coscienze e il dovere di reagire

 

Oltre al danno materiale che provocano, ostacolando una legislazione equa e coraggiosa, coloro che presentano solo piattaforme di "Vogliamo", contribuiscono all'opera diseducativa messa in moto da molte categorie di cittadini rispettabili, a cui purtroppo offrono un alibi quegli stessi parlamentari bipartisan che ritengono l'insulto e il ricatto come modi legittimi di concorrere alla altissima funzione legislativa del Paese.

 

Questi "vogliamo" non rappresentano più solo la lotta di quelle categorie che rivendicano ragionevolmente dignità e giustizia: è talora anche la somma di tanti "voglio", di tanti desideri e di tante pretese di ragazzi disorientati o di adulti non cresciuti, dei quali forniscono un campionario inquietante gli episodi di violenza sessuale e di violenza gratuita che si sono visti nelle scorse settimane su internet.

 

E' un fatto che ci sono, nella scuola di oggi, giovani che sembrano aver perduto "i fondamentali dell'umanità", come ha scritto su Repubblica Umberto Galimberti.  Ci è capitato ancora di meditare sulla disumanità dell'uomo, giovane o anziano che sia. Pensiamo a Leno, a Novi Ligure, a Beslan, ai quasi quotidiani suicidi-omicidi. Non si tratta di episodi marginali e isolati. La banalità del male di cui ha parlato Hannah Arendt continua a fare vittime. La perdita di visione generale in molti adulti e in molti giovani attenua il senso di responsabilità, fino a farlo quasi scomparire.

 

Accade che una preoccupante percentuale di studenti sia coinvolta in episodi di bullismo, o in  qualcosa di peggio, che prendono di mira anche insegnanti, ridicolizzandoli e minacciandoli; e che questi edificanti episodi, compresi gli stupri di gruppo, con insulti e bestemmie, siano dai ragazzi filmati e mandati su internet, per dare rilievo pubblico alla loro impresa, come se si trattasse di un reality show fai da te, degno di essere condiviso e premiato. Sono, questi, evidenti frutti di oscuramento delle coscienze, di anemia affettiva, etica, estetica, spirituale. Per loro contano le emozioni, il potere, il piacere, l'apparire, l'immediato: non la qualità delle relazioni, il futuro, i sentimenti, fra cui quello dell'onore e quello del pudore. Bravate ne sono state fatte in tutti i tempi: ma la vaga idea che questo fosse male impediva di farne pubblicità.

 

Ci preoccupiamo per le frane, il disboscamento, la riduzione delle calotte polari, la desertificazione,

ma anche nell'anima, nella mente e nel cuore di molti ragazzi succede qualcosa di simile. Questi ragazzi sanno usare internet meglio di noi, forse se la cavano in inglese e sanno anche compiere queste belle imprese. Tre i, che non fanno venire in mente i nobili obiettivi della cittadinanza europea, ma l'oscura inciviltà dei barbari: o meglio la i di imbecillità, che in latino significa debolezza. Debolezza di personalità storte e non cresciute, che non hanno gustato la gioia del dono, del diritto e del dovere, della dolcezza, dell'immaginazione capace di sognare e di impegnarsi a realizzare i sogni.

 

L'OCSE non registra, nelle sue indagini sull'apprendimento scolastico, queste forme di analfabetismo e di rachitismo dell'anima e della mente, che può anche convivere con l'intelligenza degli hacker, dei mafiosi e dei pedofili. La debolezza di motivazioni positive porta molti alla indisponibilità ad investire per l'apprendimento delle lingue e a fare sacrifici necessari per apprendere l'uso di uno strumento musicale, e all'indifferenza di fronte alle violenze, come risulta da recenti indagini.

 

In molti casi la distanza di sicurezza che esisteva fra la cattedra e i banchi, come quella che dev'esserci tra le macchine in autostrada, non è più rispettata; mentre in altri casi pare che si sia accresciuta, tanto da non rendere possibile la comunicazione educativa.

 

Bisogna aiutarsi a ritrovare la giusta distanza fra persone nella comunità scolastica, che nel suo complesso, se vissuta come organismo sano, capace di includere e di ricuperare, deve aiutare i discoli a sciogliere i vincoli oscuri e omertosi del branco, con la collaborazione di tutte le forze sane e illuminate di cui si dispone, nella singola scuola, nelle associazioni, nelle consulte giovanili, nei forum dei genitori e dei docenti e nella società circostante.

 

Se il ministro Fioroni, non più come meccanico armato di cacciavite, ma come direttore d'orchestra, saprà dirigere i professori, gli studenti e i genitori dell'autonomia scolastica, in riferimento allo spartito della Costituzione, allora ben venga il disegno di legge presentato dalla senatrice Soliani e altri, che prevede la "Delega al Governo per la promozione della cultura e dei valori costituzionali nella scuola italiana". La direttiva sulla cittadinanza, quella sulla partecipazione studentesca, il protocollo d'intesa su Napoli vanno nella stessa direzione.

 

E' la strada giusta, purché, come scriveva Nosengo nel suo manuale di educazione civica, ci sia la disponibilità dei docenti a "muovere dalla conoscenza amorosa di questo testo" e purché il loro insegnamento, in riferimento alla Costituzione, si  svolga "nello spirito dei suoi articoli e si concluda con la promozione di una condotta che rappresenti il rispetto e la realizzazione della volontà comunitaria espressa nel medesimo testo". Rinvio per questa problematica, alla quale l'UCIIM si è dedicata con impegno fin dall'inizio della sua vita, agli editoriali presenti nel volume citato all'inizio.

 

Si può scoprire, nella logica dei Progetti Giovani e Ragazzi 2000, che internet è disponibile anche ad accogliere scene di vita, messaggi, immagini nobili e belle, magari frutto di un lavoro comune; che un giornale d'istituto, un coro, un'orchestra, un gruppo teatrale, un gruppo sportivo possono essere valide alternative alle scritture sui muri, alla distruzione dei bagni e dei banchi, ai furti di computer, alla caccia alle compagne di scuola. I compiti a casa, per docenti e studenti, non devono essere solo esercitazioni per imparare regole astratte, ma anche occasioni per comunicare e per risolvere problemi concreti, entrando in dialogo con coloro che pensano che si possa affermarsi solo col denaro e con la violenza. I quali, se chiamati a lavorare e responsabilizzati, possono salvarsi dal peggio.

 

Del resto anche gli antichi dicevano che non s'impara per la scuola ma per la vita. Con le e-mail, con i messaggini, con i telefoni e con i blog si possono costruire reti e lanciare messaggi capaci di fare valida concorrenza a quei comportamenti distruttivi che si giustificano solo per il vuoto, la noia, la mancanza di ideali e di esperienze gratificanti e impegnative.

 

Il richiamo di Gesù, "se ti chiedono la tunica tu dagli anche il mantello", non è un invito a calar le… .come dice Perpetua, ma piuttosto a distogliere lo sguardo dalle cose, per guardarsi negli occhi e per cercare di umanizzare quella relazione che altrimenti sarebbe di pura violenza esercitata e subita..

 

Nuove emergenze, dunque, e nuove responsabilità, da viversi il più possibile collegialmente. I processi di disumanizzazione si combattono con processi di riumanizzazione. Dante, bandito ingiustamente dalla sua Firenze, continua ad affascinare dopo sette secoli, attraverso la voce e la passione del suo conterraneo Roberto Benigni. Il male non si vince se non col bene: l'Inferno dantesco è simmetrico al Paradiso.

 

Detto chiaro che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce, e che gli alberi caduti, anche se troppi, sono assai meno numerosi di quelli che crescono sani, non si possono però sottovalutare, come il Ministro ha detto chiaramente, questi sintomi patogeni: riguardano la perdita, che si verifica in un certo numero di giovani, della capacità di vedere obiettivamente le cose, di distinguere il bene dal male e di sublimare gli istinti, tenendoli sotto controllo.

 

La proteiforme pressione del mercato, la mancanza di ideali condivisi, di autorità domestiche e istituzionali autorevoli e rispettate, la mancanza di gruppi educativi e di una cultura utile ad elaborare le pulsioni, a sublimarle e a rinviarne il soddisfacimento nel futuro, in termini di equità e di responsabilità, produce lo scivolamento verso le d cattive che conosciamo: disagio, droga, devianza, dispersione scolastica, delinquenza.

 

Pensiamo all'illegalità diffusa, al razzismo, agli incidenti stradali, al disprezzo dell'ambiente, a partire da quello scolastico, ai disturbi dell'alimentazione, all'alcolismo, al tabagismo, alle infezioni di origine sessuale, alla volgarità nelle relazioni fra i sessi.

 

Tutte cose che sono già nelle circolari ministeriali, nello Statuto delle studentesse e degli studenti, e più di recente nelle Indicazioni nazionali, sotto la voce Educazione alla convivenza civile. Non ancora nel costume scolastico, a cominciare dal curricolo. Si spera che non vengano lasciate cadere dalle commissioni che dovranno occuparsi di queste cose.

 

Nella rassegna stampa sulla scuola si ha talora l’impressione che troppi studenti vivano la loro scuola non come la loro casa istituzionale, ma come una Bastiglia da distruggere o come un magazzino nemico da saccheggiare. Bisogna tornare allo slogan inventato da loro nella Conferenza nazionale studenti del 1993: essere scuola, non esserci solo dentro.

 

 

 

 

La cronaca bianca e la via per "sortirne insieme"

 

I molti articoli letti in questo periodo ci offrono un campionario interessante di punti di vista, che possono aiutarci ad affrontare anche le più difficili situazioni con provvedutezza, sulla base di una casistica, di un repertorio di ipotesi, senza le quali si rischia di restare disorientati e di reagire in maniera inadeguata, nel caso in cui ci si trovi di fronte a certi cupi scenari di incomunicabilità e di violenza. Alle emergenze non ci si prepara standosene ciascuno a casa propria o solo leggendo i libri. Quando si va in montagna servono i consigli delle guide alpine e le cordate.

 

Fra i casi da ricordare e su cui riflettere io metterei un’icona splendida, offertaci dalla televisione, tanto vituperata, spesso a ragione. Si tratta dell’abbraccio fra Agnese Moro e Alberto Franceschini, il brigatista reggiano che ha ucciso suo padre Aldo. Eppure i brigatisti assassini avevano resistito alla preghiera di Paolo VI per l'amico Aldo Moro, che aveva quasi rimproverato Dio per non aver ascoltato la sua preghiera d'intercessione. Passati i fumi dell’ideologia, che aveva presentato l'omicidio come un atto di giustizia, i due si sono trovati accomunati da un medesimo impegno di lavoro nell’ambito del volontariato sociale.

 

Dunque si può “guarire” anche dalle più gravi malattie morali. E il tempo che si dedica a prevenire i danni o a limitarli, attraverso il dialogo, la ricerca, il confronto di persone e di tesi non è perso a priori. Pensiamo a quanto lavoro si dovrebbe fare per togliere dalla mente di tanti giovani dell’area islamica l’idea del martirio omicida-suicida, come gradito a Dio e utile al loro popolo.

 

Certo che il dialogo non basta. Le leggi vanno rispettate e fatte rispettare. La legalità senza la giustizia non parla al cuore. Ma di fronte a cuori sordomuti, bisogna dare segnali chiari: il delitto non deve remunerare chi lo compie; e chi è colpito non dev'essere lasciato solo.

 

Concludiamo il discorso di Scalfari,. "Per fortuna, dice, non tutto è nero pece. Ci sono aspetti positivi, alcuni addirittura di eccellenza, in questo paese. C'è un volontariato che coinvolge ormai milioni di persone e opera con dedizione in tutti i settori della solidarietà. Ci sono ospedali e medici, ci sono insegnanti e scuole, ci sono imprenditori e manager che creano valore non solo per le loro aziende, ma per la collettività…..Non mancano risorse d'intelligenza, di moralità, di capacità organizzativa, anzi questo paese ne è ricco.

 

“Manca la fraternità italiana, il rispetto reciproco. L'esempio proveniente dall'alto. Credo poco a chi spera e propugna che l'esempio venga dal basso e si propaghi. Non è così. L'esempio capace di diffondersi e di configurare una comunità è sempre venuto dall'alto, dalla classe dirigente nel senso ampio del termine. Spetta alla classe dirigente fornire i modelli, i progetti, il canone….E' di lì che può venire la rigenerazione del paese o la sua caduta nell'anarchia. Lo specchio si è rotto. Occorre ricostruirlo. Oppure retrocederemo ad un "volgo che nome non ha".

 

Fare gli italiani in prospettiva europea e mondiale, a partire dalla scuola

 

La pedagogia e la letteratura dell’Ottocento si sono dedicate con impegno, con diversità di argomenti e di toni a “fare gli italiani”. Il compito di oggi è simile, sia pure in contesto diverso, aperto all’Europa e alla globalizzazione dei mercati e dei diritti, ma anche delle proposte indecenti La scuola non ha tutte le colpe e tutte le possibilità, ma probabilmente si sottovaluta in rapporto a questo compito di ricostruzione di una visione civile.

 

La ragione di questo degrado sta indubbiamente nell'ipertrofia dei diritti rispetto ai doveri, dell’io rispetto agli altri e alle istituzioni, nella presa in considerazione del proprio pezzetto di specchio come se fosse la realtà totale, nel rattrappimento dell'animo sul presente, come se prima di noi e dopo di noi non ci fosse nessuno a cui dire grazie e a cui rendere conto.

 

Noi potremmo aggiungere, oltre l'orizzonte di Scalfari, che questo fenomeno è dovuto anche all'impallidire della visione religiosa della vita. Se per molti Dio non è più principio di intelligibilità del mondo, di accettabilità della vita anche in condizioni estreme di indigenza, di governabilità della società, di guida alla lotta non violenta per la giustizia; se non è più legislatore, giusto giudice e insieme premio infinito per una vita buona e castigo per una vita cattiva, è comprensibile che gli idoli del denaro, del piacere, dell’apparire e del potere prendano il suo posto.

 

Quello stesso Gesù, che ha detto che si deve dare a Cesare quello che è di Cesare, ha aggiunto che occorre dare a Dio quello che è di Dio, ammonendo che non si può servire a due padroni, Dio e Mammona. Il tramonto nella coscienza di Dio fa ricadere molti su Mammona. Lo stesso Cesare infatti, e cioè lo Stato, rimane privo di legittimazione profonda, come un re travicello, di cui si può farsi beffe, a destra come a sinistra, sia rifiutando di dargli la moneta delle tasse, sia bruciandone l'immagine sulle piazze. Per fortuna questa caduta non è inevitabile, come dimostrano tanti laici dalla schiena dritta.

Certo, l'etica non è giustificabile solo in chiave religiosa, ma non si può dimenticare che questa ha rappresentato per millenni la radice del bene e del male. L'insegnamento della religione cattolica nella scuola non mira alla conversione e alla catechesi, ma deve pur mostrare ai giovani che la rinuncia al riferimento alla trascendenza pone il problema di assumere su di sé la responsabilità di dare un senso al mondo, di curarlo e di trasmetterlo il più possibile integro e governabile alle nuove generazioni.

 

In questo senso il dialogo fra Napolitano e Ratzinger è stato esemplare per dignità e chiarezza da entrambe le parti. Nessun pignolo richiamo rituale alle indipendenze e alle sovranità, ma reciproco riconoscimento della necessità di unire i propri sforzi, ciascuno con i propri valori e i propri mezzi, per “rinsaldare l’unità della Nazione e la coesione della società italiana”. Napolitano ha chiaramente chiesto aiuto al Papa, parlando di “comune missione educativa”, senza timore di alimentare interpretazioni malevole.

 

E il Papa ha risposto che la Chiesa non aspira ad alcuna supremazia e “non intende essere un agente politico”. A Napoli, col card. Sepe, Napolitano ha parlato di alleanza fra Stato e Chiesa, sul piano dell'educazione ai valori. Se n'è fatta di strada da Machiavelli e dal Congresso di Vienna, che aveva sostenuto l'alleanza fra trono e altare, in funzione reazionaria. Ora si tratta di ricostruire un tessuto lacerato, per far vivere le istituzioni democratiche e salvarsi dal sottosviluppo e dal degrado. Negli stessi giorni a Napoli tutte le istituzioni civili e religiose, col Ministro della PI hanno firmato un impegnativo protocollo, che ci riporta all'inizio degli anni '90, quando il ministro Scotti promosse la e finora unica Conferenza Nazionale sulla legalità. Il Ministero si sta ora riattrezzando ad affrontare questa problematica, con nuove intese e nuovi strumenti.

 

Con questa visione serena, accorata e responsabile si può anche capovolgere la rappresentazione del mondo giovanile criminale e indifferente che emerge dalla cronaca nera. Chi ha la mia età, a 26 anni era docente, marito e padre. Molti ragazzi di oggi vivono ancora in famiglia, hanno lavori precari e non avranno un futuro sereno, non solo per le pensioni taglieggiate, ma per il mondo rosicchiato che consegneremo loro, per il consumo sfrenato delle risorse non rinnovabili, per il corrompimento dei mondi ideali con cui orientare l'esistenza, per la complessità crescente della società, che appare sempre meno governabile, a tutti i livelli. E l'atomica rivendicata dall'Iran e dal Giappone lancia ancora nella nostra memoria il fungo distruttivo di Hiroshima.

 

Un grande obiettivo sociale utile alla ricomposizione dello specchio infranto è quello di pensare all'equità intergenerazionale e all'accoglienza educativa di quei giovani che verranno nei prossimi anni sul nostro territorio. Davvero la cittadinanza non è solo uno slogan, ma la grande sfida di chi non si rassegna al declino e alla guerra civile. Sabino Acquaviva  argomenta in un recente saggio su L'eclissi dell'Europa e addirittura sulla fine di una civiltà. Tommaso Padoa Schioppa intitola invece un suo saggio Europa, una pazienza attiva. Malinconia e riscatto del vecchio continente.

Per fortuna al governo non stanno i filosofi alla Spengler, ma gli economisti che sono riusciti a fondare l'euro e che ora non si danno per vinti. Il prossimo anno commemoreremo la Costituzione (1947) e i Trattati di Roma (1957). Ecco una buona occasione per guardare avanti, come facemmo al tempo del Progetto giovani 93, che per combattere droga e aids invitò docenti e giovani ad un "viaggio in Europa" , con intenti non puramente turistici.

 

In questa prospettiva di futuro potremo procedere ad una riconsiderazione storica della nostra società, e in particolare della scuola e delle sue riforme realizzate e/o fallite..

 

Dalle speranze di rivoluzione ai timori per la riforma

 

Alla fine degli anni ’60 dalla parte più movimentista del mondo della scuola s’invocava la rivoluzione, nella convinzione che la riforma fosse un cambiamento troppo debole e illusorio; trentacinque anni dopo la riforma sembra ai più un cambiamento troppo forte e destabilizzante. Negli anni del centro-sinistra si riuscì a riformare la scuola media, ma ci si arenò di fronte alla secondaria: governi di coalizione, di breve durata, si autoparalizzavano.

 

Ora i governi dispongono di tempi più lunghi e di maggioranze più coese: ma disagi e dissensi circa il nesso da stabilire fra principi, valori, diritti e scelte istituzionali e amministrative, rischiano di trasferire nella successione delle legislature il disfacimento penelopèo della tela riformistica che uno dei poli riesca a tessere nel quinquennio a lui concesso. Frattanto il quadro economico peggiora e l’oggetto del contendere diventa più problematico, come la speranza di conquistare un grande traguardo formativo attraverso la politica, la legge, l’impegno professionale.

 

La maggioranza di centro sinistra  aveva varato la “Legge quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione”, l.10.2.2000 n.30. Il linguaggio del “riordino” serviva ad esorcizzare la paura della riforma; ma si accorpavano elementari e medie, costringendole in un settennio. Come UCIIM, proponemmo prima lo schema 4+4+4, poi lo schema 5+4+4, per far coincidere il più possibile i cicli scolastici con i cicli di vita dei ragazzi e con i loro compiti di sviluppo e di formazione. Non ottenemmo ascolto. Collaborammo tuttavia intensamente con la Commissione De Mauro, che portò la legge 30 fino alle soglie dell’entrata in vigore.

 

La fine della legislatura, i timori per l’innovazione, simboleggiata nell’”onda anomala” dovuta al rovesciarsi contemporaneo di due leve di studenti sulla scuola, a seguito della sparizione di un anno nella scuola di base, e l’euforia della vittoria elettorale portarono la Casa delle Libertà a cancellare la legge 30 sui due cicli e la legge 9 sull’obbligo scolastico a 15 anni, vertici del tentativo di riforma della stagione berlingueriana.

 

Nonostante i bruschi cambiamenti, è opportuno ricordare che la  vita istituzionale e sociale della scuola non muore con un governo e non rinasce con un altro come Minerva armata dal cervello di Giove. Anche chi enfatizza la discontinuità e la novità rispetto ai precedenti governi, si colloca in un più vasto processo riformatore, che nel nostro Paese ha inizio con la Costituzione del 1948 e con nascita della Repubblica. Ecco perché non si può dar conto delle norme più recenti, senza inquadrarle in un contesto di linee portanti, che sono assai più sicure e solide di quanto non appaia.

 

L'esperienza fatta dimostra che anche maggioranze che durano cinque anni non possono risolvere problemi di riforma, se il mondo della scuola non è convinto e se le forze culturali e sociali che in qualche modo lo rappresentano e lo guidano non trovano un'intesa a livello di saggezza salomonica.

La rottura dello specchio scolastico rischia di aggravare la sfiducia nella politica, nelle istituzioni, nella stessa pedagogia, che dovrebbe essere la sede più alta della riflessione e della responsabilità professionale. In questo caso più che di cacciavite ci sarà bisogno dello skotch

In sette anni di esperienza nel CNPI ho sperimentato la possibilità raggiungere  intese alte e fruttuose, su tanti temi , anche su quelli più delicati e ideologicamente sensibili.

 

In un suo recentissimo libro che ho visto oggi (Pensiero manuale.La scommessa di un sistema educativo di istruzione e di formazione di pari dignità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006), Giuseppe Bertagna ripensa alle vicende scolastiche della passata legislatura, ponendosi il più possibile al di fuori della logica politica con la quale ha collaborato, per proporre a tutti un interrogativo che davvero non è aggirabile. "Non abbiamo miniere, né petrolio, abbiamo il terzo debito pubblico del mondo. L'unica ricchezza strategica su cui contare per il futuro è il contributo d'intelligenza, socialità e creatività dei giovani. Non possiamo, perciò, permetterci di perderne nemmeno uno. Ma come? Con un sistema formativo che vuole l'80% di una generazione "al liceo" e il rimanente 20% in percorsi di istruzione e formazione professionale di serie B, oppure con un sistema formativo che vuole rivendicare e praticare la pari dignità educativa e culturale fra licei e istituti dell'istruzione e formazione professionale? Con una cultura educativa fondata sul metamessaggio che si studia per non lavorare e si lavora perché non si è studiato, oppure fondata sul principio contrario: nessuno, nella società attuale può più lavorare senza studiare e studiare senza lavorare?".

 

Dopo i 55 governi della Repubblica succedutisi dal luglio del 1946 al maggio del 2006, con i relativi 32 ministri  dell’Istruzione, tocca di nuovo ad un governo di centro sinistra, guidato da Romano Prodi, col ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, riprendere in mano la tela di Penelope, dopo il quinquennale governo della Casa delle Libertà, guidato da Silvio Berlusconi, col ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Letizia Moratti. Col nuovo anno la macchina della riforma dovrà rimettersi in moto. La benzina è la fiducia nella possibilità di trovare una strada ragionevole che convinca la scuola a dare il meglio di sé. Il motore non può essere solo politico, né solo tecnico, né solo rappresentativo di forze associative e sindacali. E’ per questo che il Ministro , dopo il ruolo del meccanico dovrà indossare quello del direttore d’orchestra.

 

Si riuscirà a non impantanarsi sul biennio, momento cruciale della riforma che non dev’essere un feticcio, sul conflitto fra stato e regioni, sulla costruzione dei campus, sullo stato giuridico dei docenti e sulla formazione universitaria dei medesimi? Si riuscirà a ricondurre anzitutto culturalmente e poi anche amministrativamente i dirigenti scolastici nell'area dell'educazione e della didattica? E' vero che la scuola non vuole la riforma e che non è disponibile a cercare il nuovo, sulla base dell'antico e del moderno? Noi pensiamo di no. E vogliamo collaborare a fare la nostra parte, aiutando le ragioni e le ragionevolezze che albergano in tutti noi, anche se in taluni, talora, sonnecchiano.

Concludo con un messaggio di fiducia, che ci viene da lontano, ma che sentiamo vicino come non mai.

 

Un dono postumo di Nosengo, maestro di speranza

 

Al nuovo consiglio e al nuovo presidente dedico una pagina di Nosengo, ritrovata nei suoi quaderni, in occasione del convegno di Asti. E’, nella sua ampiezza di orizzonti e nella sua precisione “didattica”, un inno alla speranza e un piccolo manuale contro la sfiducia.

“Occorre innanzitutto accettare ed amare la sofferenza morale che viene immancabilmente dal lavoro apostolico. La sofferenza è un dono che santifica. Bisogna pensare che lo scoraggiamento è frutto di vanagloria, di sproporzionata valutazione del proprio lavoro. I nemici non sono onnipotenti. Dio sì. La loro azione è vigilata da Dio, non è sempre tutta cattiva, Dio la può volgere, almeno parzialmente, a buon fine. E’ dovere, è giustizia avere fiducia in Dio. Gesù l’ha voluta, l’ha comandata, l’ha premiata quando l’ha incontrata, ha rimproverato coloro che dimostravano di non averla o di non averne a sufficienza. Confidite, ego vici mundum”.

Per alimentare questa fiducia, bisogna alimentare la fede e coltivare alcuni buoni pensieri:

-Iddio guida il mondo e non lascia andare perduto nessuno sforzo di bene.

-I motivi di fiducia permangono, anche se io sono indegno.

-I risultati possono non vedersi, ma ci sono: in altre persone, in altri luoghi o tempi.

-Si possono perdere delle battaglie, ma la guerra finale sarà vinta.

-Non bisogna cercare effetti troppo terreni.

-Dio non vuole da me uno stato febbrile.

-Il peggiore atteggiamento in casi di insuccesso è proprio la sfiducia.

-Se non si è riusciti, vi è una ragione in più per fare (e per fare meglio).

-La mercede è data secondo il lavoro, non secondo il risultato da me constatato.

-Il risultato più grande che posso sempre ottenere è la mia fedeltà fino alla fine.  (Gesualdo Nosengo)

 

 

 

 

Nota bibliografica

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