Mario Morcellini - Mozione post approvazione riforma Gelmini


Dalla retorica della Riforma alla manutenzione dei problemi. Idee e impegni per il futuro.

Proposta di mozione di Mario Morcellini, Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione, Sapienza, Università di Roma

La Legge di Riforma dell’Università è stata approvata dal Parlamento, ed è dunque questo il momento di guardare con grande attenzione alla fase che si apre. Adesso comincia infatti il lavoro di adeguazione, che ovviamente dovrà tener conto dei regolamenti e dei decreti attuativi, e su cui occorrerà dare la consueta prova di lealtà istituzionale. Tutti i docenti, il personale e gli stessi studenti, si sono del resto già trovati di fronte all’obbligo di fare manutenzione di altre riforme.

Assunto questo impegno per molti versi ovvio, l’avvenuta approvazione della Riforma Gelmini crea le condizioni per una simulazione delle conseguenze e soprattutto per una “valutazione di impatto” che è completamente mancata alla politica. Si tratta di un lavoro di responsabilità istituzionale che supera le divisioni provocate dalla discussione della Riforma, ma non dimentica il peso che la distorsione giornalistica ha avuto nella trattazione incompetente e priva di dati sul sistema universitario, salvo limitate eccezioni.

Il primo passo di questa indispensabile riflessione è il censimento dei punti di crisi, ovvero della aree sensibili sulle quali si prospettano le principali difficoltà di applicazione del provvedimento approvato.

Anzitutto la governance, rispetto alla quale i nodi critici sono riconducibili a diversi aspetti. Sul piano della cosiddetta “governance apicale”, ovvero legata alla struttura e alle competenze degli organi di ateneo, un’area sensibile (ma tutt’altro che negativa in sé) è rappresentata dall’accesso impegnativo del privato. Il rischio concreto, già denunciato in passato da più parti, è che non si traduca nell’auspicabile reinvestimento delle imprese e del tessuto produttivo, ma in una compressione del ruolo di servizio pubblico dell’università, nonostante le dichiarazioni di principio della Legge di Riforma. Va inoltre prestata attenzione, in fase attuativa, al miglior funzionamento degli organi, affinché si traduca in una riduzione degli sprechi assembleari e non degeneri nell’esatto contrario. È quanto è successo puntualmente in passato, anche a fronte di riforme più consensuali.

Per quanto riguarda la “governance di secondo livello,” ovvero quella legata ai rapporti tra Dipartimenti e Facoltà, occorre attentamente monitorare la funzionalità di un’integrazione, sostanzialmente imposta, tra didattica e ricerca e l’effettiva semplificazione degli organi. Sarà anche interessante verificare quanto la riduzione delle strutture accademiche (Dipartimenti, Facoltà, ecc.) si traduca in effettive economie di scala.

In secondo luogo, c’è il problema del reclutamento dei docenti e della progressione di carriera: quanto tempo e quanti soldi, che oggi non ci sono, ci vorranno per realizzare quella che è stata presentata come “tenure track”? Quanto tempo sarà necessario per rimettere in moto i concorsi?

Occorrerà monitorare tutti questi processi. L’osservazione, la valutazione sistematica e i correttivi necessari per applicare la Riforma in relazione a queste funzioni istituzionali saranno a carico, come già avvenuto in passato, prevalentemente del corpo docente, che è chiamato a un’ulteriore prova di managerialità (sempre a costo zero).

Più difficile è invece valutare l’effetto di disorientamento degli studenti. E questo peso dell’incertezza ricadrà ancora una volta sulla nostra responsabilità, e non su chi ha progettato riforme dall’alto. È più complicato che in passato il riferimento biunivoco tra classi di studenti e curricula, se non altro perché i Dipartimenti sono ben più numerosi delle vecchie Facoltà e, già a partire dalle denominazioni, interferiscono con l’identità che gli studenti riconoscono nell’offerta formativa, rischiando di generare confusione. L’effetto positivo può essere che a lungo termine si determini un rafforzamento delle lauree magistrali più collegabili ai Dipartimenti. Ma l’effetto negativo potrebbe esser l’ulteriore frammentazione e polverizzazione delle istituzioni didattiche e la difficoltà per gli studenti di riconoscere le filiere formative.

Senza dimenticare che il passaggio legislativo, anche in forza del carattere brusco e semplificatorio dell’iter riformatore, ha determinato conflitti di piazza di cui non c’erano tracce da oltre trent’anni.

È difficile sottrarsi alla sensazione che una procedura di Riforma più condivisa e che avesse valorizzato i pareri dei soggetti istituzionali e delle rappresentanze del mondo accademico, a partire da quelle studentesche, avrebbe stemperato una conflittualità che certo non favorisce l’avvio del processo di adeguazione alla Riforma, su cui c’è stata anche la posizione di altri organi, come l’Interconferenza dei Presidi e il Consiglio Universitario Nazionale. Anche se stavolta occorre dire che è successo qualcosa di più: nelle poche e lontane occasioni in cui sono avvenute convocazioni, il risultato è stato sempre opposto ai pareri sollecitati. A chi serve un modello così “blindato” di discussione pubblica e di rispetto della autonomia dei corpi sociali? Essa è stata presentata come una Riforma per i giovani, ma per esserlo davvero avrebbe dovuto prevedere meccanismi procedurali e stanziamento di risorse che effettivamente favorissero gli studenti durante il percorso universitario (pensiamo al problema delle borse di studio) e quanti intendono dedicarsi alla ricerca e allo studio anche dopo la formazione di base e di secondo livello. E’ invece difficile rintracciare nelle conseguenze applicative quello spirito di apertura ai giovani così messo in mostra nella retorica pubblica e mediatica.

A questo si aggiunge infine che la prospettiva di risorse sull’alta formazione, oggettivamente declinanti, pone in piena luce la riduzione di forza e di autonomia progettuale del Ministro responsabile del comparto rispetto alla “piramide superiore” che decide i pesi e le priorità della spesa. Il rischio concreto è che sia proprio la cosiddetta Riforma Gelmini a patire il rischio di diventare un’etichetta ingiustificatamente incollata a qualunque processo di disfunzione e impoverimento del sistema. E non è neanche impossibile ipotizzare che la suddetta Riforma abbia dato risultati più “benefici” in termini di effetto di annuncio nel sollecitare le autonomie istituzionali dal basso (Università, Facoltà, Dipartimenti) ad operazioni di razionalizzazione e di contenimento degli eccessi dell’offerta formativa.

Si può prospettare in questo caso un effetto di contrappasso (di dantesca memoria per quelli che colgono questa citazione). Il Ministro dell’Università sconterebbe una gravissima omissione di un principio di responsabilità e di etica pubblica: invitare gli studenti a diffidare dei professori – demagogicamente additati come baroni - è una dimissione pubblica dal ruolo di Ministro di tutte le parti del sistema. Come se i professori passassero i prossimi anni ad attaccare, agli occhi degli studenti, l’incuria e l’incapacità della politica, in particolare di questa politica, invece che svolgere la funzione deontologica di trasmettere ed estendere il sapere.

Sottoscrizioni:

Carla Xodo, Direttore dell'Osservatorio sulla qualità e deontologia delle professioni educative, Università di Padova; Mario Berlardinelli, Ordinario di Storia Contemporanea nell'Università Roma Tre